Sotto un luccichio di luci sospese che simulano il cielo stellato una donna anziana si piega sulle gambe ricurve, rovistando dentro un baule posto all’estremità del palcoscenico, e da un altro baule diagonalmente opposto emerge un vecchio esile, canuto e tremolante. Evocato dal ricordo di lei, torna a condividere la vita con la sua donna e i due si abbracciano sostenendosi con tenerezza, avvinti in una danza che è il riflesso della vita che hanno attraversato insieme.
Allo scoccare della mezzanotte, lo scoppio di un petardo mette in moto la macchina del tempo in un viaggio onirico a ritroso. Il baule è un catalizzatore e tornano a rovistarlo, ricavandone frammenti di esistenza che si riavvolgono all’indietro: cadono le maschere raggrinzite e, assumendo postura dritta, indossano abiti più giovanili, mentre si diffonde una colonna sonora d’antan, i magnifici Anni Sessanta di Edoardo Vianello, Rita Pavone, Mina, Luigi Tenco, Michele, Morandi.
La ballata amorosa attraverso la mimica e la gestualità esprime un’intimità emotiva di gesti teneri e piccoli screzi, momenti di evasione e romantiche malinconie fino all’arrivo di un figlio, mentre ringiovaniscono fissando delle istantanee tramite gli oggetti che scaturiscono dal baule, indietreggiando fino al primo incontro al mare, giovanissimi e innamorati.
Separati dalla morte ma vitalizzati dalla forza dell’amore, i due coniugi tornano a riavvolgere il fil rouge di quell’amore, ammaliati dal suono del carillon. Mentre la vita scorre a ritroso dalla vecchiaia all’adolescenza vanno all’indietro anche i ritmi musicali e i balli che la coppia esegue, liberandosi di strati di indumenti fino a rimanere in costume, al mare da adolescenti quando lei sogna di fare l’astronauta e lui il falegname e pensa di regalarle un castello. Il baule è una wunderkammer (camera delle meraviglie) che fornisce materiale per dare corpo al mosaico dei ricordi e lenire la solitudine: palloncini, un bambolotto accudito amorevolmente da entrambi, coriandoli, un abito da sposa, un petardo, un pacco regalo, una bottiglia di spumante, gli abiti di paillettes del concorso di milonga cui parteciparono sbaragliando tutti perché “I cchiù bravi du Munnu”.
Non ci sono dialoghi, fungono da filo conduttore la gestualità abbinata a suoni sincopati, quasi un grammelot, e la suggestione delle canzoni, da “Lontano lontano” di Tenco a “E se domani” di Mina, “Natale” di De Gregori, “Il ballo del Mattone” della Pavone, “Se mi vuoi lasciare” di Michele, “Watussi” di Vianello, “Fatti mandare dalla mamma” di Morandi, con i balli dal tango al twist, dall’hully-gully al ballo della mattonella, cui forsennatamente si lasciano andare.
Quando tutto il contenuto dei bauli è disseminato a terra, la vita della coppia ritorna al punto di partenza, sulle note di “Tango delle capinere” con la voce di Nilla Pizzi. La donna solleva tra le braccia il corpo esanime del marito e lo depone nel baule da cui era fuoriuscito, tutto è compiuto mentre in sottofondo aleggia un tango di Piazzolla.
Ritmo ed espressività corporea sono i personali stilemi del teatro di Emma Dante, in cui il corpo dell’attore veicola il messaggio quando il testo è scarno o addirittura incomprensibile. Il ritmo, elemento fondante, si intensifica e si fa movimento scenico, mentre la vita è la vera protagonista e il linguaggio dialettale è corollario alla potenza delle immagini evocative. Teatro carnale, arricchito nel finale da uno scambio di battute, taglienti e sincopate nell’icastico dialetto palermitano, a sostegno dell’impalcatura della messinscena.
Questo mosaico dei ricordi di chi è sopravvissuto all’altro è l’approfondimento di Ballarini, appartenente alla Trilogia degli occhiali, che la regista siciliana dedica alla generazione dei suoi genitori e particolarmente al padre.
Manuela Lo Sicco e Sabino Civilleri tornano a interpretare i due innamorati senza nome, credibili e performanti in tutte le fasi della vita dei personaggi, a tratti clowneschi, sempre teneramente emozionanti.
La regista riporta in epigrafe alle sue note i versi di Alda Merini: “So che un amore/può diventare bianco/come quando si vede un’alba/che si credeva perduta”.
Tania Turnaturi