Una fisica, scultorea, carnale voce narrante a bordo palco, introduce gentilmente la tradizione. Tradizione da tombolata, di quelle che un numero tira un altro, attaccati fragilmente sulle dita di un panariello, quindi destinati a trovare il loro punto. Tradizione di canti e balli popolari che si succedono con disinvoltura in scena. Escono i primi numeri e poco importa che si tratti di sedici, venti o del tanto temuto diciassette.
I ballerini e le ballerine arrivano con valige piene di vestiti. Si svestono tra un passo e l’altro, saltando dentro nuove sembianze attitudinali. I colori e i suoni del Mediterraneo piombano letteralmente sulla platea, in un vortice di ricordi ed emozioni che attraverso il ballo riempiono gli spazi della scena e per mezzo di brevi brani di musica dal vivo e di canti di frammenti di luce, il semibuio della platea.
Diciassette… è un omaggio accorato a Donatella Centi, coreografa e danzatrice, madre dell’autrice e regista Viola. Un dono gentile che mette bene a fuoco il panorama artistico e culturale della danza popolare. Alle spalle, tra un intermezzo e l’altro, le immagini televisive e di filmini amatoriali, rimandano al ricordo dell’artista che è venuta a mancare lo scorso anno. Un modo persuasivo di tentare di rimettere in sesto, portandola ai posteri, quella tradizione dispersa nella memoria di un passato archiviato. Una consegna di significato etimologico.
Tra un ballo e l’altro, ci si lascia guidare anche dal velo di una maschera che copre gli occhi degli spettatori, la loro vista, lasciando libero e agile l’udito. La musica persiste tra i passi attutiti di quello che sembra essere un vero e proprio schieramento ai margini del nostro sentire. Sono passi che stavolta accompagnano un canto, un coro di voci che si intersecano a cappella. Le voci di Valeria D’Angelo – davvero brava a dare voce e respiro a uno spettacolo che sostanzialmente è un alternarsi di balli popolari e che mancando di una vera e propria linea di racconto necessita di un perno apripista – Valentina Di Deo, Elisa Surace e Domenico Provenzano, degni punti di appoggio vocale. I due ballerini e le due ballerine riescono poi a donare una bella vitalità al movimento, un moto circolare e laterale, di spostamenti verso l’esterno e ritrovamenti felicitanti verso l’interno. Un sollecitante atto di fede nei confronti di quelle forme, di quei suoni e di quei colori di vitale, aneddotica importanza memoriale. E nei riguardi di una generazione che non può essere tralasciata, né tanto meno archiviata. Scuote ancora le travi nel tentativo di mantenere a galla il cuore pulsante, il filo pungente di tutta questa serie di manifestanti tradizioni.
Federico Mattioni