Testamento artistico di Leoš Janáček, Da una casa di morti è un potente affresco musicale e drammaturgico che è andato in scena per la prima volta al Teatro dell’Opera di Roma firmato dal Leone d’Oro, il polacco Krzysztof Warlikowski, affidato alla bacchetta del direttore bielorusso Dmitry Matvienko.
Un importante debutto italiano per Warlikowski con un’opera che si inserisce all’interno del progetto triennale dedicato a Janáček, inaugurato lo scorso anno con Kata Kabanova e che si concluderà il prossimo anno con Jenufa.
Un’opera difficile e potente, scritta (sia la musica sia il libretto) nel 1928 da Janáček, tratta da Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij, che sostanzialmente in scena sembra non avere una vera e propria trama: non a caso Warlikowski si è affidato al dramaturg Christian Longchamp che ha ri-tagliato dal romanzo una drammaturgia sintetica, ma efficace che indaga sulla psiche dei personaggi, sempre a sostegno della musica del compositore ceco.
“La sua musica è estremamente misurata e ha una capacità di creare una vera drammaturgia musicale che non conosce paragoni – spiega Longchamp – Nonostante incontriamo persone violente che si sono macchiate di delitti, Janáček non giudica mai nulla anche grazie alla sua lettura intima di Dostoevskij e con la sua musica regala momenti di luce anche ai personaggi più bui”.
La vicenda si svolge in un carcere, naturalmente portato ai giorni nostri, dove arriva un prigioniero politico picchiato dai sorveglianti: intorno a lui l’umanità variegata e abbrutita dei carcerati con le loro vicende personali. Un affastellarsi di episodi legati a ciascun detenuto si sussegue nel corso dei tre atti, con l’inserimento anche di una sgangherata rappresentazione si un simil Don Giovanni da parte dei detenuti fino al terzo atto che vede la liberazione del prigioniero politico graziato tornare alla vita in contrapposizione agli altri detenuti che restano in carcere.
In un’opera tutta al maschile dove le donne appaiono praticamente solo come vittime, la violenza non solo fisica, ma soprattutto mentale, è onnipresente: Warlikowski offre una rilettura prepotentemente politica sulla funzione delle carceri e della polizia anche con l’ausilio di immagini proiettate sul grande schermo, in apertura e nei preludi con un’intervista a Michel Foucault in un’accusa sulla esplicita politica e autoritaria dei tribunali riflettendo sull’utilità delle carceri e con due toccanti interviste a un condannato a morte.
“Questi uomini non sono veramente morti, ma sono una sorta di spettri viventi che vivono e rivivono tutto quello che hanno vissuto” spiega il regista che riflette proprio sulla società e sul sistema di sorveglianza in un’opera politica.
Molto incisiva l’interpretazione del regista che trasferisce il campo di detenzione siberiano in un moderno carcere occidentale, fra teatro, basket e televisione, e con sostanziali diverse licenze, come l’aquila con le ali tarpate che diventa un detenuto ferito che vuole tornare a volare.
Scene e costumi, contemporanei con un inevitabile qui di squallido, sono affidati a Margorata Szczesniak che realizza una sorta di parallelepipedo monolite che si rivela utile per realizzare vari ambienti, dall’ufficio del direttore alla scena teatrale.
Tutto è molto cupo e toccante, esattamente come i colori della partitura egregiamente interpretata dal giovane plurimpremiato (vincitore della Malko Competition di Copenaghen) direttore bielorusso Dmitry Matvienko che ha saputo mettete in risalto colori e sfumature della partitura (scelta la versione del 2017 di John Tyrrell).
In un opera completamente corale, con il grande coro di Ciro Visco, il cast (unico per tutte le repliche) si distingue per forza vocale e interpretativa, fra cui spiccano Mark S. Doss nel ruolo del prigioniero politico Gorjančikov che legge, osserva e riflette, Leigh Melrose che interpreta Šiškov, Stefan Margita è Filka Morozov, Marcello Nardis è il Kedril dell’opera teatrale del secondo atto. Tanti gli applausi del pubblico per l’opera difficile, ma necessaria.
Fabiana Raponi