“Altered States” , fil rouge dell’edizione numero 17 della Biennale danza secondo il suo direttore artistico Wayne Mcgregor, si sono manifestati nei diciotto giorni del festival in ogni declinazione e sfumatura artistica, secondo quella doppia condizione vissuta dall’artista e dallo spettatore che precisa il direttore Mcgregor:. «Quando danziamo o assistiamo a straordinarie performance di danza, le sensazioni corporee più profonde provocano cambiamenti, poiché le reazioni chimiche che avvengono dentro di noi alterano le nostre percezioni in tempo reale». Un concetto raffinatissimo sull’essere scenico che permea quel processo creativo ritrovato ampiamente nel pensiero filosofico ed estetico del Leone d’Argento assegnato a Tao Ye e Duan Ni, i fondatori della Tao Dance (2008). Moglie e marito, i due danzatori e coreografi, vivono e lavorano in quella inarrestabile Cina, dove spingono il corpo verso territori inesplorati, nella ferma convinzione che, il movimento sia infinito, un universo da indagare in un sistema circolare di dinamiche. Nella sala delle Colonne di Cà Giustinian, il 27 luglio scorso, la coppia artistica ha emozionato tutti durante la cerimonia di premiazione con parole piene di bellezza e gratitudine: «Io sono il buco nero e Duan è la luce che lo riempie» – ha sostenuto il coreografo Tao Ye riferendosi alla moglie. Un senso di complementarietà e affinità reciproca (cosa assai rara oggi nella coppia contemporanea) che ha saldato negli anni i due artisti, animati da un elegante minimalismo. «Dobbiamo imparare a togliere» hanno ancora ribadito «eliminare l’inutile e restare concentrati su sé stessi per ottenere qualcosa dalla ricerca». Su questo autentico pensiero artistico, intimo e delicato Wayne Mcgregor ha motivato la premiazione: “Abbandonata la narrativa, la trasmissione di un messaggio e le scenografie elaborate – afferma –, Tao Ye e Duan Ni hanno creato un genere di danza unica ed evoluzionistica che cattura con la sua forza ipnotica e minimalista. La loro compagnia, è impegnata in
un’estetica di ‘danza pura’, essenziale, che elimini ogni categorizzazione del movimento e, per estensione, di loro stessi. Il corpo viene presentato come elemento da percepire in quanto affascinante alla vista – privo di rappresentazione, narrativa, contesto: semplicemente esistente come oggetto. Esso viene amplificato solo dall’uso della luce e del suono, così da consentire agli spettatori di essere messi a confronto – e alla prova – con tecniche, vocabolario e forme rigorosamente focalizzate sul corpo”.
Un rigore scientifico e coreografico già battuto sulla lunga strada della performance nei rigogliosi States degli anni ’60 e ‘70 dal Leone d’Oro Simone Forti, coreografa e artista che ha superato i confini tra le arti creando fusione e dialogo in quel rapporto ciclico tra corpo e oggetto. In una visione allargata di spazi, pensieri e teorie che per osmosi si completano vicendevolmente, gran parte della sua opera è stata esposta nella sala d’Armi E per tutta la durata del festival, nella mostra Dance Constructions. Un ragionato percorso espositivo, realizzato in collaborazione con The Museum of Contemporary Art (MOCA) di Los Angeles per la Biennale, che ripercorre i sei decenni di lavoro di Forti, illustrando l’ampiezza e la profondità della sua pratica attraverso opere su carta, video, ologrammi, ephemera e documentazioni sulle performance. Parte di questi hanno ritrovato la scena con i giovanissimi della Biennale College nei giorni del 14 e 29 luglio. Una fortuna per i virtuosi del College potersi confrontare con l’eredità della grande Simone Forti grazie al lavoro
di Sarah Vox Swenson, coreografa, danzatrice e specialista nel lavoro di Forti.
Ipnoticamente alterati sono stati anche gli stati emotivi suscitati dalla visione di “Pendulum” una installazione della coreografa australiana Lucy Guerin e dell’artista visivo Mathias Schack-Arnott. Un lavoro ingegnoso sulla dinamica oscillatoria di tanti neon a pendolo, di memoria magrittiana, che invadono la scena del teatro delle Tese. Questi, dotati di sensori ad interfaccia interattiva in grado di captare il movimento dei danzatori con suoni specifici, non lasciano sulla scena nulla al caso. Come grandi lampadari oscillatori dall’alto, hanno dato vita ad un gioco di sincrono perfetto, sulla luce e sul suono.
Di altrettanto sincrono “On the Nature of Rabbits” del coreografo danese Pontus Lidberg,
presentato in prima mondiale nella sala d’Armi la sera del 26 luglio. Un lavoro di grande
generosità coreografica, incentrato sull’infanzia ed i suoi oggetti simbolo, ricettacoli di paure e rimorsi come i palloncini, il coniglio, figura questa giocata e sacralizzata nel corso della coreografia con un uso ampio e variegato di musiche. Pontus Lidberg, personaggio algido ma dalla vitalità fresca e spontanea, mostra una sensibilità delicata nel tratteggiare quei bisogni e desideri inespressi che sono uguali al Nord quanto al Sud. La sua danza, sia pure con delle ripetizioni estreme che portano al progressivo “cenno” del movimento, cattura e racconta tutto quel non detto rimasto inalterato sotto la nostra pelle.
Tante le prime mondiali, europee e nazionali che si sono susseguite sui palchi della Biennale
danza in un crocevia di artisti, coreografi, danzatori e stampa, giunta anche d’oltreoceano, per raccontare i nuovi disegni che la danza, anche a livello politico ha dimostrato di tracciare nei giorni del festival e altrove. Temi che la studiosa e critica di danza Elisa Guzzo Vaccarino ha delineato nel suo bel “Confini. Conflitti Rotte Geopolitica della danza (edito da Scalpendi) un volume che, presentato il 27 luglio nella biblioteca della Biennale con il critico Roberto Giambrone, esplora i mutamenti della danza a partire dal balletto “Excelsior” di Manzotti/ Marenco del 1881 all’oggi. In queste pagine la geopolitica della danza è un processo che allarga e dilata gli orizzonti – secondo l’autrice – si muove scardinando valori, culture e identità tra riti e balletti di repertorio. Alterati, dunque, possono in questo caso intendersi anche gli Stati, come nazioni, paesi di conquista, verso un concetto di esotico ormai desueto nella cultura globalizzata, dove la danza stessa, tra balletto e rito, racconta meglio e di più di ciò che siamo e desideriamo.
Cristina Squartecchia