Tracy Letts, drammaturgo e attore di Durant, in Oklahoma, cresce come molti americani – dichiara in un’intervista – “condividendo la storia di famiglie che hanno forgiato la loro etica nel corso degli anni della Depressione fino al Baby Boom”.
“Agosto a Osage Country” è il suo dramma più premiato (Premio Pulitzer per il miglior lavoro teatrale nel 2008) e mostra lo smascheramento del mito del nucleo familiare felice, che è stato a lungo un punto fermo del dramma americano.
L’azione si svolge nella casa della famiglia Weston, nell’assolata contea di Osage, e vede il serrato confronto tra Violet (Anna Buonaiuto), che combatte contro un cancro alla bocca ed è dipendente da farmaci e antidolorifici, e le sue tre figlie: Ivy (Stefania Medri), remissiva, ma con un suo segreto, l’unica a essere rimasta a vivere lì vicino; Karen (Valeria Angelozzi), che si presenta accompagnata dal laido fidanzato seduttore, Steve (Fulvio Heidebrecht); e infine Barbara (Manuela Mandracchia), che accorre col marito Bill (Filippo Dini) e la figlia adolescente, Jean (Caterina Tieghi) in un luogo che sarà terreno di scontro senza via d’uscita tra i due coniugi. A completare il quadro di famiglia, l’arrivo dello zio Charlie e della zia Mattie Fae (Orietta Notari), che nel salotto confessa una relazione con il marito di sua sorella.
Anna Buonaiuto si muove con nervosa disinvoltura nella scenografia modernariale creata da Gregorio Zurla tra parati deformati e accessori démodé, molto appropriati a contrastare la tragedia imminente con l’annuncio, da parte dello sceriffo, del ritrovamento del corpo del patriarca, Beverly, ex docente di letteratura e poeta di successo dedito all’alcol, morto probabilmente suicida.
Sotto lo sguardo d’aquila della madre, Barbara Ivy e Karen dovranno vedersela con vecchi rancori e segreti a lungo nascosti, lottare con le unghie per sopravvivere e alimentare una fiammella di felicità.
La loro ultima serata assieme è un momento di resa dei conti dove, morta ogni speranza di riconciliazione, l’unico modo per sfuggire all’aridità degli affetti è salire in macchina e partire, tagliando il cordone ombelicale per non fare più ritorno. Un congedo che illumina tutte le difficoltà e i pregiudizi di una provincia fatta di solitudini condivise e di promesse disattese, da cui Barbara, la più combattiva, decide di affrancarsi, muovendosi nevroticamente tra cucina e salotto, nel tentativo di spezzare l’apparente ordinarietà di quell’interno.
I dialoghi sono amari e corrosivi ma anche ironici e, a tratti, divertenti. Il testo teatrale ha conosciuto anche una versione cinematografica costruita sul virtuosismo di Meryl Streep e di Julia Roberts. La versione teatrale di Filippo Dini tiene testa a questo precedente, e restituisce tutte le contraddizioni e l’alienata stagnazione di questa famiglia decimata e senza sogni che, tra gli accenti isterici delle attrici protagoniste e la passività dei personaggi maschili sembra cadere in una valle misteriosa tra il melodramma e la parodia, con azioni e gesti di enfasi esagerata, esplosioni di lacrime, discorsi ardenti e sarcastici, non riuscendo tuttavia a raggiungere né le vette del sentimento melò né i voli della parodia sapiente. Ma può anche darsi che la transizione dal testo allo schermo abbia messo in luce i punti deboli dell’architettura drammatica di Letts e i punti deboli nella sua scrittura. Va detto, senza nulla togliere all’impianto generale, che la storia della famiglia Weston è secondaria rispetto allo spettacolo che gli attori danno a se stessi Le attrici protagoniste mettono in campo tutta la loro energia per offrire le svariate coloriture psicologiche di un testo intenso e senza cedimenti che, tra divagazioni, battibecchi e amare confessioni, disegna una affilata, amara ma inevitabilmente divertente satira, oltre che della famiglia, anche del matriarcato che ne fa le veci.
Roberta Daniele