HAPPY DAYS IN MARCIDO’S FIELD (di Marcido Marcjdoris e Famosa Mimosa)
Andato in scena il 20 e 21 ottobre 2023, Florian Espace, Pescara
BY: Paolo Verlengia
Quando noi spettatori entriamo in sala la scena è già attiva, ribolle di fremiti. Una cantilena incede mentre prendiamo posto, si ripete con insistenza autogenerativa, pervicace, pare possa andare avanti per sempre.
Questi primi istanti, apparentemente di mero riempimento, “predicono” a ben vedere l’imminente sviluppo degli eventi, alla stregua di una nuvola scura all’orizzonte, della luce breve di un lampo. Già contengono in embrione il magma di un’energia esplosiva che ci travolgerà, senza requie né indulgenza.
Gli HAPPY DAYS dei Marcido detengono questa natura lavica, di fenomeno sotterraneo destinato ad erompere ogni decennio o giù di lì, annullando repentinamente l’acquiescenza sedimentatasi sulle coscienze, ripristinando istantaneamente la capacità di sorprenderci che avevamo lasciato negli armadi delle nostre precedenti età. Uno shock, diremo oggi con le categorie dei nostri tempi, a descrivere il residuato di ciò che un tempo si chiamò con il nome di catarsi: un senso tragico che persiste senza le forme della tragedia, che convive con la leggerezza dello show, il ritornello inane dello spot, la consistenza evanescente dell’ “entertainment” o dell’informazione spettacolarizzata.
L’essenza della scrittura di Beckett è contenuta in questo passaggio in misura ben maggiore rispetto ad una lettura pedissequa delle dedascalie che accompagnano i suoi drammi. Così, la scena di HAPPY DAYS IN MARCIDO’S FIELD è un paesaggio denso, connotato ad un tempo da colorismo pop (il babydoll di rose scarlatte di Winnie, il rosso paonazzo della sua pelle, le unghie finte e le lucine a mezz’aria) ed un minimalismo perturbante. Il Grande Girello, la storica macchina scenica firmata da Daniela Dal Cin, trionfa al centro della scena come uno scheletro tentacolare, ma in quest’ultimo allestimento le dimensioni sono ridotte. Il congegno scenografico rinuncia alla sua originaria monumentalità, eppure ora, più vicino alle dimensioni umane, il suo effetto visivo si fa paradossalmente più sinistro: non allude più alla montagna, al “sublime” strapotere della Natura Madre che detiene l’illeggibile senso dell’esistenza. Si rivela bensì nella scabra materialità di un impedimento fisico, una gabbia inorganica in cui il corpo di Winnie è perennemente intrappolato, crudelmente prossimo al mondo irraggiungibile.
Dissolta l’algida grandiosità, la scena converge verso scenari più famigliari: in un baleno, ecco che quasi somiglia ad una giostra, secondo un gioco di polarità che appartiene alla duplicità della scrittura di Beckett quanto alla cifra dei Marcido. La stessa tragica Winnie – “ingabbiata” in una strenua logorrea ottimista, capace (forse) di negare alla sua vista la realtà più evidente – appare ora un clown da circo ora un diavolo da parodia, da sfilata carnascialesca o da baraccone ambulante. Non possiede l’allegra floridezza vagheggiata da Beckett, la chioma ha il colore della cenere, le mani sono nere. Sopra di lei, l’immensità è confinata da un disco luminoso che lascia alludere una pluralità di simboli, ma principalmente si mostra nelle fattezze di una ribalta rovesciata.
Una chiave, ovvero, che apre la via ad una esperienza metateatrale: come l’attore, Winnie esiste solo se ha un pubblico che la guardi. Anche la sua parola, non è che logorroica utopia che qualcuno la ascolti, che chi l’ascolti non smetta di farlo, non la abbandoni. Willie – il marito o quanto meno il deuteragonista testuale – non c’è più, la sua corporeità è parcellizzata nell’anonimato di un coro, di una trasparente molteplicità, soprattutto in questo allestimento (sono tre i coreuti, rispetto ai sette del progetto originario).
La ribalta capovolta rovescia su di noi tutto ciò che il palcoscenico ha messo in scena: la solitudine di Winnie non è solo quella dell’attore, ma è la rappresentazione di una condizione umana che non sopravvive nel mito del superomismo, dell’indipendentismo, dell’autosufficienza. Che, ad onta di ogni narcisimo in evo digitale, ancora implora uno sguardo nel buio.
Paolo Verlengia
CREDITS:
HAPPY DAYS IN MARCIDO’S FIELD 2022
da Samuel Beckett
con Paolo Oricco nel ruolo di Winnie
e con Valentina Battistone, Ottavia Della Porta e Alessio Arbustini
drammaturgia e regia di Marco Isidori
scenografia di Daniela Dal Cin
produzione Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa
Florian Metateatro, Stagione 2022-23, “Teatro d’Autore ed altri Linguaggi”