Annibale Ruccello, talentuoso drammaturgo, regista e attore, riesce a coniugare la tradizione colta del teatro popolare campano con l’originalità del teatro contemporaneo, in una sintesi del tutto nuova, fuori dagli schemi prestabiliti.
Formatosi alla scuola di Roberto De Simone, Ruccello in “Ferdinando” (1985) racconta una Napoli variopinta e controversa di fine ‘800, nel passaggio dal regno dei Borbone all’Unità d’Italia.
E’ stato più volte sottolineato che non si tratta di un dramma storico. Il testo parla dei sentimenti e delle pulsioni umane più intimi; la solitudine, l’inganno, il desiderio di amore che si manifestano in modo paranoico attraverso istinti carnali inconfessabili, in un linguaggio definito da Franco Quadri, “astratto” che contamina il napoletano colto della tradizione barocca e ottocentesca con quello sottoproletario e suburbano, con espressioni ricche di elementi spuri e comprensibili per la loro musicalità.
Al centro della vicenda c’è Donna Clotilde (Sabrina Scuccimarra) la quale, dopo la caduta del Regno delle Due Sicilie, decide di rifugiarsi in una decadente villa nobiliare alle pendici del Vesuvio dove passa le giornate a letto fra rosari e medicine, sfoggiando con orgoglioso sarcasmo il ricco idioma partenopeo come forma di resistenza all’italiano, “una lingua straniera, barbara e senza storia” imposta con l’invasione delle armate sabaude. La baronessa è incollerita dal disfacimento del suo mondo e dall’assottigliarsi del patrimonio ma è anche dotata di una disarmante sincerità e, si scoprirà dopo, di una bizzarra sensualità.
La giovane cugina Gesualda (Anna Rita Vitolo) sopporta le angherie verbali di Clotilde assistendola con un affetto malato, al quale le due si aggrappano per istinto di sopravvivenza, portando sulle spalle come una croce il proprio destino di “bizzoca”.
Nella vita delle due donne irrompe un adolescente, Ferdinando (Riccardo Ciccarelli), per il quale le due donne perdono letteralmente la testa finendone sedotte. Il giovane, che evoca il personaggio di Pietro, in “Teorema” di Pierpaolo Pasolini, dove il perturbante ospite riesce a scompaginare la vita di una famiglia borghese degli anni Sessanta, arriva al punto di intrecciare una tresca sessuale perfino con l’ambiguo Don Catello, il parroco dai costumi fin troppo facili.
Crollati ogni freno inibitore e convenzione sociale, le due donne, segnate da represse fragilità, saranno disposte a macchiarsi di un atroce delitto pur di inseguire la loro insana passione, sospese tra liturgie sacre e il rifiuto del mondo reale, fino all’amara scoperta che Ferdinando è un truffante e, danno cui segue inevitabilmente la beffa, non si chiama neppure Ferdinando, come il re Borbone, bensì Filiberto, come un Savoia!
La regia esperta di Arturo Cirillo, che torna dopo 11 anni sulla scena anche nel ruolo del curato (di cui fu interprete lo stesso Ruccello) regala momenti di autentico divertimento e di colpi di scena, tra parodie e grottesco, che emozionano e scuotono gli spettatori attraverso le trovate gergali esilaranti dei protagonisti, le cui ribollenti passioni sono interpretate con estrema naturalezza da un quartetto di attori di grande temperamento.
Un grande spettacolo, che non basterebbe vederlo una volta sola. Perfetto anche per l’impianto barocco enfatizzato dalla scenografia di Dario Gessati, dai bellissimi costumi di Gianluca Falaschi, che sembrano ricostruiti da foto e dipinti d’epoca, e dalle musiche ispirate a Bach che nell’insieme fanno un prodotto di alta qualità professionale e artistica.
Roberta Daniele