Tra solitudine e infinito bisogno d’amore: Frankenstein (A Love Story)
“Cosa sogna un corpo non umano?”
Frankenstein (A Love Story) con ideazione e regia di Daniela Nicolò e Enrico Casagrande di Motus è andato in scena alla Triennale di Milano dal 22 al 26 novembre 2023. È indiscutibile il legame autobiografico tra la storia di “Frankenstein o il Prometeo Moderno” (del 1918) e la sua autrice britannica Mary Shelley. É Indissolubile la connessione tra il noto romanzo gotico fantascientifico, e quella che può definirsi una relazione d’amore: tra Mary Shelley, il Dottor Frankenstein e la sua creatura; tra la mostruosa creatura e il suo infinito bisogno di intrecciare rapporti umani.
Ciò da cui si è irresistibilmente attratti nello spettacolo di Motus Frankenstein (A Love Story) è l’atmosfera e la cura dei dettagli. La scena quasi brechtiana è costruita in modo da essere fruibile su più livelli: in alto i sottotitoli in italiano e in inglese proiettati in tempo reale (di Daniela Nicolò), sullo sfondo le immagini video (di Vladimir Bertozzi) e la suddivisione in capitoli, sul palco l’uso di teli trasparenti utili a ricreare l’effetto di una pioggia incessante, caratteristica del meteo di Ginevra dove l’autrice viveva dal 1816 con la sorellastra, amante del noto poeta Lord George Byron. “Non smette mai di piovere, la realtà è idrosolubile” dice Mary Shelley (Alexia Sarantopoulou) avvolta tra buio e luce. Il connubio tra luci (di Theo Longuemare) e ambienti sonori (i soundscapes elettronici di Enrico Casagrande) conferisce ulteriore tridimensionalità alla scena, che diventa immersiva, ma in maniera conturbante: un luogo che si può intravedere, che invita a entrare e respinge, che trasporta e limita.
Dietro i teli, spettri di corpi popolano il palco, nudità di frammenti di corpi ricuciti in unicità tormentate, moltiplicazione di identità-non identificate.
Siamo alla genesi onirica del racconto: la storia di Frankenstein infatti, non ha avuto origine da un pensiero volontario, ma da un incubo fatto dalla Shelley. In quel periodo trascorreva il tempo libero a leggere storie tedesche di fantasmi insieme alla sorellastra e a Byron, mentre con l’amico Polidori, affrontava discorsi sulla natura dei principi della vita. Da qui la storia del Dottor Frankenstein (Enrico Casagrande), studioso accanito di Filosofia naturale, ossessionato dall’idea di voler creare la vita dall’inanimato: difatti di notte amava recarsi nei cimiteri e aprire le tombe per studiare la decomposizione dei cadaveri e con la convinzione che la morte potesse generare una nuova vita. Questa creatura senza nome e senza famiglia, resta “orfana”, viene abbandonata dal suo creatore il Dottor Frankenstein, intimorito dalla sua stessa creazione.
La solitudine di Creatura (Silvia Calderoni) si trasforma in un delirio danzante e intenso, un grido di sete d’amore e di ricerca di sè nell’altro, non potendo riconoscersi in un corpo con cui è stato condannato a vivere.
“Cosa sogna un corpo non umano?”
“Vorrei sentire la vicinanza di qualche essere, è un mio diritto riprodurmi liberamente”.
Si inserisce bene il brano “I love you” dei Fontaines D.C. , quasi una dark ballad che vien giù dalle tenebre.
Alter ego dell’autrice sono figure maschili (il Dottor Frankenstein) o l’incarnazione del suo sentirsi diversa e per questo mostruosa in una creatura per metà umana e per metà mostro: Shelley si sente per metà donna e per metà dice di avere tratti ferini. Educata dal padre rimasta orfana molto presto, ha sempre frequentato compagnie maschili. Ha avuto tre figli, persi molto presto e si è ritrovata a convivere con una solitudine precoce e inaspettata di figlia orfana e di madre irrisolta.
Shelley è così shelley-Frankenstein, ma è anche shelley-Mostro. L’espediente dell’uso di una tuta identica replicata indossata dai tre personaggi(Creatura, Dottor Frankenstein, Shelley), è una forma di dissociazione da sè e di scomposizione dell’io nei suoi evidenti alter ego.
Frankenstein (A Love Story)
rappresenta il disagio del vivere in un mondo in cui è facile sentirsi diversi dagli altri, ma anche l’amore verso sè stessi in un mondo di uomini che sembrano mostri.
“Sono io il mostro? Quello da cui tutti fuggono?”
Notevole è l’intento sempre più insistente della compagnia Motus nel voler rendere il teatro un linguaggio universale e un luogo accessibile a tutti: oltre all’inserimento dei sottotitoli, nei giorni scorsi, è stata organizzata anche una visita tattile alla Triennale di Milano che ha offerto ai partecipanti la possibilità di toccare con mano le scenografie e gli oggetti di scena dello spettacolo: “bisogna toccare, toccarsi, altrimenti la vita non viene”.
Lavinia Laura Morisco