Duccio Camerini torna in teatro e lo fa -per così dire- nel meno discreto dei modi, mettendo in scena un puro classico ed un autentico capolavoro della drammaturgia contemporanea come IL GUARDIANO di Harold Pinter. Un rapporto mai concluso a ben vedere quello che Camerini intrattiene con il palcoscenico, territorio di costante ritorno per lui dai successi cinematografici e televisivi, dove seminare i progetti più personali, più profondi ed intimamente audaci. Basta scorrere il mero elenco delle sue produzioni teatrali nel corso degli anni: da una iperbolica, funambolica traversata in solitaria dentro l’opera di Proust ad autori come Jack Gelber o David Mamet. Il “fil rouge” che si ricava mettendo assieme i diversi punti indica una passione schietta per la scrittura, per la parola come cosmo, come materia tutta umana e non artificiale che contiene al suo interno interi mondi, prima ancora di adoperarsi a descriverli come paesaggi esteriori.
IL GUARDIANO, testo del 1960, risale agli esordi del Pinter drammaturgo, dove tutta l’energia che verrà poi esplicitata nel suo attivismo politico (dalle sue posizioni anti-thatcheriane alle proteste contro la guerra del Vietnam fino alla denuncia delle cospirazioni internazionali perpetrate in Cile e nel Centroamerica) è conservata in forma implicita, trattenuta eppur presente, vibrante di quella tensione tutta “pinteresca” che rende inconfondibili i suoi drammi. Una scrittura talmente plastica ed “autonoma”, capace di vivere nelle pagine del testo e nella semplice azione della lettura, da risultare paradossalmente difficile da mettere in scena in maniera efficace e scevra da artefazione.
Forse è per questo che Camerini decide di giocare “in attacco” la sua partita con Pinter, scrollando via in partenza ogni reverenza cultuale. Un “all in” che si manifesta nella modalità operativa quanto nelle scelte stilistiche impresse al lavoro: Camerini cura la regia dello spettacolo ed allo stesso tempo è in scena nel ruolo pastoso di Davies, elemento drammaturgicamente cruciale per far oscillare, ora verso l’un lato ora verso l’altro, gli equilibri di questo trittico tutto incentrato proprio sui rapporti di forza, anche quando i protagonisti sono tutti dei deboli, dei reietti, dei “drop out”.
Ad incarnare Aston e Mick, l’indecifrabile coppia di fratelli, c’è la freschezza di Lorenzo Mastrangeli e Leonardo Zarra, perché il piano di regia di Camerini propone un’interpretazione netta dell’enigma disegnato da Pinter: un confronto tra due ed uno, tra i giovani e l’anziano, con l’incedere del dramma che serve a svelare progressivamente i toni del confronto, dapprima tattico quindi spietato. Forte anche la connotazione fornita alla scena: dal realistico interno domestico, elemento tipico in Pinter ed iconico del primo Pinter, con tanto di pareti, immancabili porte e suppellettili scientemente ordinarie, la regia di Camerini ci trasferisce invece in un vecchio teatro dismesso e cadente. Le linee sbilenche di cavi pendenti fanno il paio con il bianco acre delle disadorne lampade neon, poggiate a terra in vari punti di un palcoscenico impervio, che costringe gli attori a movimenti cauti, incerti, imperfetti. Un luogo inospitale che trasmette per sinestesia il disagio tattile previsto dal testo: il freddo degli spifferi che si insinua da finestre che non chiudono, le infiltrazioni d’acqua che trapelano da soffitti incrinati. Perché in effetti, quello che Pinter vivificava tramite la sua pièce non era una denuncia sociale (le condizioni di vita poco dignitose delle periferie inglesi dove venivano marginalizzati i meno abbienti e gli immigrati); era bensì il simbolo drammaturgico di un guasto antropologico, l’intolleranza verso l’altro e talvolta l’intollerabilità dell’umano da parte del suo simile quando veniamo chiamati al banco della condivisione: situazione che il teatro fornisce su di un piatto d’argento alla rappresentazione artistica tramite la sua organica unità di luogo.
Al contempo, nello spettacolo di Camerini palpita la presenza di un “off stage”, un “fuori scena” dove sono idealmente confinate tutte le propaggini che il testo prevedeva “in scena” (il ciarpame degli oggetti di risulta accumulati da Aston, i due letti al centro di un ciclico contendere). Un altrove che risuona, che scatena rumori inquietanti, che allude come un’ombra ad un piano ulteriore tutto terreno da cui s’irradia come veleno quel senso della minaccia che è la firma, il cuore profondo della scrittura di Harold Pinter.
Paolo Verlengia
CREDITS:IL GUARDIANO di Harold Pintertraduzione Alessandra Serracon Lorenzo Mastrangeli, Leonardo Zarra, Duccio Cameriniregia Duccio Cameriniaiuto regia Cristina Tassone, Alessia Ferreroambienti sonori Samuel Desiderifoto Michela Piccardiproduzione Florian Metateatro/Compagnia Duccio Camerini (Roma)