Uno spettacolo intenso e profondo – “vietato ai minori ai minori di 48 anni non accompagnati” – realizzato per rinverdire i ricordi di un passato non tanto lontano e del quale evidentemente si ha profonda nostalgia; che è quella poi che riaffiora prepotentemente nei cuori e nelle menti degli spettatori che lo guardano ascoltando momenti ineguagliabili di storie diverse tra loro.
Spettatori che rappresentano la gran parte di un pubblico in cui la presenza di ultraquarantenni, ma in prevalenza di ultracinquantenni si ritrova dentro al teatro Donizetti di Bergamo mescolandosi in un “gioco della memoria” intriso di modernità, anche nel tentativo “disperato” delle vecchie generazioni di “riagganciare” le nuove. Nuove generazioni che si sono succedute e si succedono tuttora e da cui le vecchie vorrebbero trarre quello spunto per intrattenere un dialogo che, per quanto s’impegnino o si sforzino, non gli riesce.
Ebbene, l’ultimo lavoro di Marco Paolini e Michela Signori piace. Piace, innanzitutto perché è un modo forse nuovo per rammentare ciò che eravamo e per riflettere, contestualmente, sul futuro, nel tentativo di comprendere sino in fondo dove “andremo a finire”. Nella vita, pertanto, si cambia, questo lo sappiamo tutti.
E Paolini è riuscito a raggiungere pienamente questa consapevolezza, dicendotelo a modo suo, mettendoci un po’ del suo dialetto veneto per rendere così più convincente la propria narrazione. Boomers, per dirla con Paolini, è pertanto, una sorta di “ballata teatral-cybernetica dove la memoria collettiva di una generazione viene trasformata da scenari di video gioco in realtà virtuale”.
La generazione “Boomers” è, diciamolo pure, una generazione di passaggio tra “vecchi” modi di vedere la “realtà effettuale” da quella virtuale, appunto, da cui i giovani dipendono letteralmente. Eccolo allora Paolini che si fa chiamare Nicola e ritorna nel bar della Jole dove rievoca i fatti del “tempo andato”.
Dallo sbarco sulla luna nel luglio del 1969 con i cronisti dell’epoca come Tito Stagno e Ruggero Orlando che per oltre 15 ore di diretta “attrassero” gli italiani davanti al video del tubo catodico per assistere a ciò che gli astronauti americani Armstrong e Aldrin con la navicella Apollo 11 fecero quando “vi misero o non vi misero piede”. Il bar della Jole (una fantastica Patrizia Laquidara) che diventa, a sua volta, il luogo ideale ed il crocevia di storie dove si consumano i primi amori ed in cui il corteggiamento diveniva una leva di conoscenza e di comprensione reciproca e che oggi è diventato soltanto uno sbiadito ricordo.
Così come le incessanti lotte politiche e l’appartenenza allo schieramento di sinistra o di destra rappresentavano il modo d’essere di generazioni che avevano individuato così un modello da seguire ed in cui la gran parte della gioventù di quei tempi s’identificava: quante lotte, quanti sbattimenti pur di difendere un’ideale o, più banalmente, un’idea!
La scena poi si svolge davanti ad un pilone di un ponte autostradale che non viene terminato completamente e da cui si passa dal taglio del nastro ad un altro per l’inaugurazione di un’infrastruttura che alla fin fine non entrerà mai in funzione ed in cui s’intravedono le eterne contraddizioni di un “sistema” mai tramontato.
Eppure sotto quel ponte c’era tutto un mondo fatto di vitalità in cui Jole diventava il faro, il trait d’union di ogni racconto e di ogni accadimento, il punto d’approdo finale anche nel caso si fosse rimasti da soli.
Certamente in questo gioco della memoria le nuove tecnologie complicano la vita a chi è più anziano. In questo contesto allora “vero e reale è ciò che si vive o ciò che si racconta?” si chiedono gli autori dello spettacolo.
Nel frattempo, contestualmente, la musica fa la sua parte, ininterrottamente, grazie all’ensemble di musicisti guidati dalla Laquidara. Musica che diventa il filo conduttore che lega ogni cosa e che detta il ritmo ad una serata che ti lascia col fiato sospeso fino al termine con la Laquidara a condurre il gioco intrigante di voci e canzoni che si susseguono e che ti fanno, inevitabilmente, ritornare alla mente i tuoi vissuti.
Con sullo sfondo brani dei “Ricchi e poveri”, dell’intramontabile Raffaella Carrà e tanti altri ancora in un intreccio continuo e fitto fino a quando la stessa Laquidara scendendo dal palcoscenico, e risalendo il centro della platea inizia ad intonare come un usignolo il brano di Alan Sorrenti: “Figli delle stelle” che in modo soave e poetico tra le luci soffuse del teatro che l’accompagnano, invita delicatamente il pubblico a cantare con lei, insieme a lei. Gli scroscianti e convinti applausi fanno il resto in una serata che ha portato con sé un tocco leggero di magia!