Un omaggio, a due anni dalla scomparsa, al presidente del Parlamento europeo David Sassoli, illuminato e visionario europeista che si è battuto per l’attuazione di politiche di accoglienza e integrazione e il dialogo interreligioso, con la lettura di alcuni brani tratti dagli interventi in Parlamento a Bruxelles, ha preceduto la prima teatrale di “Love’s Kamikaze”.
L’atto unico di Mario Moretti, drammaturgo che ha espresso in tutta la sua scrittura l’attenzione ai temi di rilevanza sociale e civile con acuta lungimiranza, portato in scena fin dal 2005 dal regista Claudio Boccaccini, mantiene ancora la forza dirompente di una tragica storia d’amore che si incista nella quotidianità della guerra tra due culture e due religioni. Boccaccini torna ciclicamente su questo testo, di fatale attualità pur in un contesto politico barbaramente degenerato negli ultimi mesi. La fiaccola della speranza di un cammino di pace nel conflitto arabo-israeliano cammina sulle gambe delle future generazioni: “Se i simili sono diversi e i diversi sono simili, perché si fanno la guerra?”.
Tel Aviv: nel locale della centrale elettrica dell’Hotel Hilton, uno scarno giaciglio, un tavolo, un fornello, qualche sedia, alcune scaffalature, carcasse di elettrodomestici (scene di Eleonora Scarponi, costumi di Antonella Balsamo, tecnico luci e fonica Andrea Goracci). Un luogo tetro, nascondiglio dell’amore segreto di Naomi e Abdel, ebrea lei, arabo-israeliano lui. Un amore giovane e istintivo che vive a dispetto delle famiglie e della Storia, alimentandosi di brevi momenti tra il rito del caffè e quello dell’amore. Fuori la città è sconvolta dalla Seconda Intifada. Nel bunker i due ragazzi sono costretti a misurarsi con le rispettive origini anche nelle piccole schermaglie quotidiane e non riescono a sotterrare le loro differenze, che l’attualità costringe ad affrontare ogniqualvolta un attentato provoca decine di morti con la conseguente rappresaglia israeliana nei Territori. Le differenze culturali e religiose si misurano su Torah e Corano confrontandosi con le paure del conflitto tra israeliani e palestinesi che risale a Isacco e Ismaele, entrambi figli di Abramo ma di madri diverse.
Naomi, la grintosa e scattante Giulia Fiume, è propositiva, difende il suo sentimento e punta su ciò che li accomuna. Esorcizza i timori ricordando il pensiero di David Grossman che l’umorismo è l’unica religione, vaccino contro fanatismo e fondamentalismo, e critica il governo che occupa e opprime, rafforzando il terrorismo dei kamikaze.
Abdel, il tormentato e malinconico Kabir Tavani, si professa agnostico, ma lancia sottili messaggi di disagio fin dall’inizio dichiarando di aver messo in atto una tecnica di simulazione di identità per vivere in Israele, e l’Intifada gli ha cambiato la vita. È disilluso, dilaniato da un conflitto interiore: la famiglia lo accusa di non essere abbastanza arabo e in Israele è emarginato per le sue origini. Ironizzano e ridono delle diversità, che tuttavia prevarranno sui sentimenti.
Quando la radio diffonde la notizia dell’attentato kamikaze in un centro commerciale, affiora l’anima islamica di Abdel, che evidenzia le contraddizioni del paese in cui la popolazione vuole lo Stato palestinese ma vota il Likud che è contrario. Il ragazzo confessa di aver voluto la cittadinanza israeliana per sentirsi dalla parte di chi aveva sconfitto le forze armate arabe, ma l’Islam ha l’odio lungo e gli estremisti sono inarrestabili poiché neanche gli arabi vogliono lo Stato palestinese che comporterebbe il riconoscimento dello Stato di Israele di cui, invece, vogliono la totale distruzione.
In questa disamina rifulge il lucido vaticinio di Mario Moretti.
L’umorismo nulla può contro alta finanza e mercato delle armi. Inevitabile l’adesione al richiamo di Allah che gli fa ritenere il sacrificio come il più nobile dei gesti per riscattare la viltà di essere diventato israeliano: “devo morire per sentirmi vivo”.
Mentre il timer scandisce i secondi e le musiche ipnotiche di Antonio Di Pofi amplificano il pathos, Naomi fa la scelta di immolarsi con l’uomo amato, anche senza condividerne le opinioni, per scrivere un nuovo capitolo, poiché sono i corpi che scrivono le rivoluzioni. “Qualcosa deve cambiare!” grida rivolta alla platea. Tutt’oggi continuiamo a sperarlo.
La scrittura scenica esalta il ritmo serrato e la naturalezza dei dialoghi sia nelle espressioni gergali sia nel radicalismo religioso. Il testo di Moretti, infatti, ha ottenuto nel 2003 il premio letterario nazionale Luigi Antonelli-Castilenti con la motivazione: “riflette sull’odierno periodo storico in modo originale e con una tensione teatrale di grande efficacia”.
Claudio Boccaccini ha scelto di riproporre una nuova edizione, che continua a mostrare la sua tragica attualità a distanza di molti anni, spinto dalla “disperata volontà di continuare a contrapporci alla barbarie e alle ingiustizie con le uniche armi a nostra disposizione: il teatro e la poesia”.
Tania Turnaturi