Se è evidente che Die Zauberflöte (Il flauto magico) sia uno dei capolavori di Mozart, è anche vero che il celebre singspiel del 1791 è ambientato in un mondo fantastico che ha del meraviglioso, dove le forze del bene e del male, fra riti di iniziazione (che si legano alla Massoneria), flauti magici, regine della notte e fanciulle da liberare, si contrappongono. Al Teatro dell’Opera di Roma è andato in scena il Die Zauberflöte (Il flauto magico) firmato da Damiano Michieletto, nel pregiato e moderno allestimento realizzato ormai nel lontano 2015 da La Fenice di Venezia in coproduzione con il Maggio Musicale Fiorentino, qui ripreso da Andrea Bernard.
Come tutti i lavori di Michieletto, 2 volte Premio Abbiati, e ormai legatissimo all’Opera di Roma per cui ha firmato già nove regie, anche questo apprezzato Flauto Magico, è un allestimento moderno, che il regista immagina come “allegoria delle forze che si contendono la formazione dell’individuo”, una feroce contrapposizione tra l’oscurantismo magico e religioso (incarnato dalla Regina della Notte) e la conoscenza offerta dall’Illuminismo, rappresentano da Sarastro, fonte razionale. “In un’atmosfera vivace, senza tradire il sottotesto legato al Flauto Magico, ho portato in classe Mozart” spiega Michieletto.
Ecco allora che Michieletto trasporta la favola magica su libretto del capocomico e direttore teatrale Emanuel Schikaneder, che ben incontrava il gusto popolare viennese dell’epoca, all’interno di una scuola che rispecchia la nuova concezione laica dell’istruzione che si è affermata dopo la Rivoluzione Francese.
È l’aula scolastica ad ospitare allegoricamente il percorso iniziatico della storia con notevoli libertà, un tocco di prevedibilità e di genialità con la deliziosa lavagna luminosa, uno schermo magico con le immagini in video, incluso il serpente iniziale, le proiezioni di parole, misteriose formule, aforismi (a cura di Rocafilm) e tutta la magia del flauto che si illumina.
Sono sempre funzionali le scene di Paolo Fantin, dall’aula al bosco con alberi, fino al doppio spazio riservato alla Regina della Notte, i costumi moderni di Carla Teti, le suggestive luci di Alessandro Carletti.
Insomma lo spettacolo funziona (affollatissime, quasi da sold out le sette recite previste), è vivace e divertente, ogni elemento viene adeguatamente riposizionato così come dovrebbe in una rilettura allegorica del genere: Tamino e Pamina diventano due fanciulli che si misurano con un processo di formazione, alla scoperta individuale degli affetti e della sessualità, compiendo un percorso iniziatico nel viaggio notturno nel bosco.
Da principe, Tamino diventa studente perbene, così come Pamina che riesce ad affrancarsi dal controllo della madre, una Regina della Notte che nulla mantiene di magico o favolosamente crudele, destituita a donna simil nevrotica che ingurgita pasticche e tranquillanti.
L’analfabeta Papageno, non istruito, ma dotato di gran senso pratico e che conosce il linguaggio non scritto degli animali, diventa il saggio bidello della scuola, così come la sua equivalente Papagena. Nel conflitto in atto fra luce e tenebre, Sarastro, qui preside della scuola, rappresenta la concezione laica dell’istruzione in contrasto con l’istruzione religiosa simboleggiata non solo dalla Regina della Notte, ma rafforzata anche dalle tre Dame che diventano tre figure seducenti suore, mentre Monostato diventa lo studente bullo, guastafeste e molesto, così come le tre guide di Tamino si trasformano in tre piccoli moderni minatori che gli fanno luce nel suo rito iniziatico.
Ora, se questo Flauto appare in generale meno convincente di altre riletture del regista veneziano, è pur vero che il pubblico apprezza particolarmente la fresca e brillante direzione del giovanissimo (classe 1993) talentuoso Marco Spotti, al debutto all’Opera, ma già neo Direttore musicale dell’Opera e dell’Orchestra Filarmonica di Marsiglia, che vanta una già avviata carriera internazionale: una direzione serrata che lascia risaltare la meravigliosa partitura mozartiana fin dall’Ouverture, fra ricchezza di timbri sonori ed espressività della drammaturgia mozartiana, alla scoperta di una partitura che sembra un caleidoscopio e “che colpisce – ricorda Spotti – per la capacità di parlare a chiunque”.
Apprezzata dalla platea anche la piena omogeneità di un cast vocale di primo ordine che annovera il ritorno di Juan Francisco Gatell, nel ruolo di Tamino (già nel 2017 dello stesso allestimento al Maggio Musicale Fiorentino nello stesso ruolo da protagonista) che si distingue per timbro chiaro e tenerezza espressiva, cui si lega l’agilità luminosa del soprano ungherese Emőke Baráth/Pamina, specializzata nel repertorio mozartiano.
Sempre disinvolto, vocalmente e fisicamente, si destreggia da consumato padrone della scena, il baritono Markus Werba alias Pagageno contraddistinto dal suono del Glockenspiel.
Sempre adeguati, il Sarastro di John Relyea, già Mefistofele nell’inaugurazione di stagione, il Monostatos del tenore Marcello Nardis, le tre dame Ania Jeruc, Adriana Di Paola e Valentina Gargano. Buona, ma non brillantissima nella sua crudeltà, la Regina della Notte di Aleksandra Olczyk, esilissima figura trasformata in istitutrice con tanto di collo di merletto. Sempre eccezionale il Coro dell’Opera di Roma diretto da Ciro Visco.
Fabiana Raponi