diLuigi Pirandello conMilena Vukotic, Pino Micol, Gianluca Ferrato e conLuchino Giordana, Marco Prosperini, Maria Rosaria Carli, Giorgia Conteduca, Antonio Sarasso, Dacia D’Acunto, Walter Cerrotta, Vicky Catalano, Giulia Paoletti regiaGeppy Gleijeses videoartistMichelangelo Bastiani sceneRoberto Crea costumiChiara Donato musicheTeho Teardo light designerFrancesco Grieco aiuto regiaGiovanna Bozzolo produzioneGitiesse Artisti Riuniti
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“Di lavoro non si muore. Di lavoro si vive. Gli attori andranno in scena per affermare il diritto al lavoro, la difesa della vita e del lavoro in sicurezza” ha affermato, visibilmente commossa, l’attrice Milena Vukotic, rivolgendosi alla platea del Teatro della Pergola di Firenze, a nome di tutta la Compagnia, subito prima di andare in scena e a poche ore dal tragico crollo presso il cantiere di via Mariti, dove sono rimasti uccisi diversi operai.
Il prologo di Così è (se vi pare), l’opera diretta dal regista, ma anche presidente dell’associazione sindacale Forum Attori Italiani, Geppy Gleijeses, ha dunque preso avvio durante l’accorato applauso di risposta del pubblico, citando in immediato, con la forza di cui solo il teatro è capace, quella visione del mondo, a cannocchiale rovesciato, che il critico letterario Giovanni Macchia aveva intuito come motore trainante di tutta la produzione artistica di Luigi Pirandello. I personaggi, le comparse, gli accadimenti turbolenti della vita, possono essere osservati e forse meglio compresi da quella distanza che li ridimensiona e ci permette di padroneggiarli, come effettivamente può un narratore onnisciente, empatico ma mai del tutto travolto dai fatti che racconta, in questo caso, con la particolare pretesa di renderli il più possibile aderenti a una visione obiettiva, filosofica e intimamente elaborata, paradossalmente, attraverso una lente analitica dotata di umorismo catartico e salvifico.
Già nel saggio L’umorismo, del 1908, Pirandello, precursore geniale degli studi sociologici di Gregory Bateson sulla comunicazione umana, ma anche certo estimatore della teoria psicoanalitica, aveva espresso chiaramente la visione del mondo che contaminava la sua poetica e che ha poi influenzato tutta l’arte del Novecento; nell’enorme pupazzata della vita, la precarietà angosciosa delle nostre esistenze può conquistarsi una chiave di lettura nuova, risolvendo il dolore con il medicamento dissacrante della risata. Questo non vuol dire esularsi superficialmente dal conoscere, ma adoperarsi quasi chirurgicamente nel comprendere, secondo una particolare prospettiva che questo allestimento scenico ha saputo accuratamente celebrare, grazie ai curiosi ologrammi, al delicato e pungente tappeto di virtuosismi sonori, ai caricaturali costumi d’epoca, giocati sulla tipica ostentazione borghese affine alla maschera, ma anche per effetto delle scarne scenografie incorniciate da un labirinto di specchi, in grado di distorcere le immagini e moltiplicarle, omaggiando, così, il relativismo percettivo della realtà di Uno, nessuno e centomila, ma pure, senza dubbio, la complessa caratura dei personaggi, di tanto in tanto cinti da quegli stessi specchi da cui traspare anche, per un sapiente gioco di luci, un controcampo, una possibile dimensione intima di ciascuno, integra come una verità ancora insondata.
L’io doppio, a se stesso opposto, alienato, eppure animato da una moltitudine di possibili interpretazioni, è l’anima della novella rappresentata, per la prima volta, nel 1917, nel corso della Prima Guerra Mondiale e durante il travagliato tracollo finanziario della famiglia di Pirandello, che vide anche, drammaticamente, ammalarsi di schizofrenia la moglie.
La trama è ricca di riferimenti biografici che individuano apertamente, nel gusto per il pettegolezzo e nella grottesca rigidità della formalità borghese, il movente di una profonda sofferenza; tra una risata e l’altra, gli spettatori possono cogliere facilmente una severa critica al giudizio e al pregiudizio che stigmatizza ciò che appare diverso e incompreso.
La storia della Signora Frola, che si è trasferita col genero e la figlia in un paesino, ma vive separata dai due e riesce a comunicare con la figlia solo attraverso brevi missive, è una storia di tortura; ha come vera protagonista la comunità che si interroga ossessivamente sulle ragioni di questa singolare situazione, cercando di appurare la verità con lo stesso impegno di un tribunale dell’inquisizione, dissezionando con sadica morbosità e ottusa arroganza, le piccole tragedie della quotidianità, senza nessun senso di solidarietà.
Tutti si chiedono chi sia il mostro o il pazzo: se la signora Frola, convinta di visitare a distanza la figlia, o il genero, che afferma la morte della stessa figlia.
Ed è in questo ritratto di una provincia, assetata di notizie ed intrattenimenti, che si dipinge dettagliatamente, invece, la pazzia di una certa società, completamente dissociata dai reali drammi storici della sua contemporaneità, completamente assente a se stessa e alla razionalità.
Gli spettatori sono catturati e disorientati dai riflessi cangianti degli specchi che riescono a generare effettivamente una riflessione autentica sulle verità che non si possono vedere, ma solo avvertire internamente.
Le interpretazioni degli attori, calibrate ed impreziosite da una padronanza espressiva veramente prismatica, sono tali da immergere l’intero teatro in un silenzio irreale, fino alla finale rivelazione della figlia della signora Frola, misticamente accolta sul palco attraverso l’iconica rivisitazione di una pietà cristologica, in cui, nascosta da un velo nero. è centrale e trina: figlia, donna e oscurità sconosciuta a se stessa, per un capolavoro di assoluta attualità.
Ines Arsì