Amore a prima vista per Pedro Lemebel…
A cinquant’anni dal colpo di stato militare in Cile che l’11 settembre del 1973 rovesciò il governo socialista di Salvador Allende dando inizio alla feroce dittatura del generale Augusto Pinochet, Claudio Longhi direttore artistico del Piccolo Teatro di Milano, mette in scena al Piccolo Teatro Grassi per un mese di repliche, la sua prima regia con lo spettacolo “Ho paura torero”, tratto dal libro omonimo di Pedro Lemebel. Lemebel è scrittore e artista cileno (Santiago del Cile 1952-2015), voce radiofonica negli anni successivi alla dittatura, icona queer e camp.
L’origine di questo spettacolo è la fascinazione per la qualità del linguaggio e della costruzione del romanzo di Lemebel – “è un testo che, in virtù del linguaggio, sembra ‘scappare’ da tutte le parti ma al tempo stesso ha una concentrazione drammaturgica, una misura, una tensione, tipiche della forma drammatica più che del romanzo” dichiara il regista Longhi. La scelta comune di Longhi insieme a Lino Guanciale(qui dramaturg e attore), è stata quindi quella di trasferire direttamente il testo di Lemebel – nella traduzione di M.L. Cortaldo e Giuseppe Mainolfi con trasposizione teatrale di Alejandro Tantanian- dalle pagine alla scena teatrale.
Ciò che salta subito all’occhio nello spettacolo Ho paura torero, è la contestualizzazione storica e la cura dei dettagli. Su una scena cosparsa di manifesti che riproducono quelli dell’epoca storica – “no violencia”, “libres nascemos libres moremos”, “Pinochet” e molti altri – una narrazione scorrevole dai tratti descrittivi pittoreschi, ci trasporta nel mondo fantastico de La Fata dell’angolo, un travestito innamorato interpretato da Lino Guanciale: il suo interno domestico (una soffitta) è luogo dell’anima e dell’arte (il canto, la musica, la danza), nascondiglio per le paure, rifugio onirico intimo di fragilità e amore, sfumato di una buona dose di erotismo e pathos.
Siamo a Santiago nel 1986, una città che “scorreva ronzando”. La Fata dell’angolo offre la sua soffitta come rifugio a un giovane interpretato da Francesco Centorame – Carlos (in realtà è uno pseudonimo per passare inosservato) – un soldato oppositore del regime (il suo vero nome è Manuel Rodriguez) che non svelerà mai la sua vera identità a la Fata dell’angolo. La Fata se ne innamorerà perdutamente, scegliendo di ignorare quello che in realtà già immagina e permettendo a Carlos di riempire la sua soffitta di casse dal contenuto ignoto – che occupano la scena come componenti d’arredo insieme a pizzi colorati – mettendo a rischio ogni giorno la sua integrità fisica e interiore. Ci si affeziona gradualmente a questo personaggio innamorato, un po’ bizzarro e canterino, che si guadagna da vivere ricamando tovaglie. Sarà anche Carlos a legarsi lentamente a questa figura inafferrabile e poetica, rendendosi a sua volta inconquistabile: tra loro si instaura un rapporto intimo perlopiù mentale per una passione non consumata e, per questo, ancora più desiderata e eterna, alla Özpetek.
L’intimità domestica si alterna a un road trip affascinante in cui i personaggi vivono la città per strada e l’atmosfera soffocante di quel tempo. La messa in scena è così un’altalena danzante di incontri, sofferenze, legami, separazioni, storia e tratti satirico-grotteschi. A tal proposito, non si può non ci citare l’attenzione posta con lente di ingrandimento alla vita privata del generale Pinochet con la sua gracchiante e insopportabile moglie (Doña Lucia), interpretati magistralmente da Mario Pirrello e Arianna Scommegna. Una coppia triste e allo stesso tempo spassosa. Lui è rigido, freddo, ma non nasconde le sue fragilità; lei è frivola e attaccata ai beni materiali, estranea alla realtà del marito. Le loro conversazioni diventano dei refrains comici che fanno sbellicare dalle risate. Sono però anche i segni di uno sguardo accurato e profondo di Lemebel di ampio spettro su tutti i personaggi.
Il registro comico si alterna a quello drammatico, quando ci troviamo coinvolti nel bel mezzo di una protesta del popolo e iniziano a piovere foglietti in platea: “Pinocho, se te acabò la fiesta – pan justicia libertad trabajo”. La Fata decide di lasciare il suo rifugio e per strada vede repressione e violenza, miseria e i fumi dei lacrimogeni. Per molto tempo non avrà più notizie di Carlos, perderà completamente le sue tracce, temendo per lui e sperando di poterlo incontrare. La scena finale li riunisce in un “locus amoenus”, dove Carlos mostrerà il suo animo sensibile e un interesse più autentico per quella fata ignorante.
Il ruolo della Fata sembra essere vestito ad hoc su Lino Guanciale, è interpretato con delicatezza, carisma e evidente adesione all’autore. Bravo Francesco Centorame, naturalmente espressivo nel personaggio di Carlos.
Ho paura torero è uno spettacolo di 3 ore, imponente. Nonostante l’impostazione teatrale nella recitazione e nella componente drammaturgica, ha una scorrevolezza e una resa quasi cinematografici con frequenti interventi radiofonici. Questo lo rende uno spettacolo fruibile in modo piacevole, leggero, destinato a un pubblico non solo di nicchia.
Lavinia Laura Morisco