Massimo Popolizio torna a dirigere una rappresentazione corale, con una moltitudine di attori le cui voci e storie si susseguono senza soluzione di continuità, creando una polifonia di umanità sulla condizione e il destino dell’uomo.
Il dramma di Maksim Gor’kij, rappresentato per la prima volta a Mosca nel 1902, noto come I bassifondi, o Nel fondo, o anche Il dormitorio, venne titolato L’albergo dei poveri da Giorgio Strehler che ne curò la regia per l’inaugurazione del Piccolo Teatro di Milano nel maggio del 1947. Ed è con questo titolo che Massimo Popolizio lo porta in scena con la drammaturgia di Emanuele Trevi.
L’albergo dei poveri è un luogo di derelitti che trascinano le proprie vite ai margini dell’esistenza umana in un luogo pregno di sofferenza, malanimo e vodka, veicolando denuncia sociale, amare riflessioni di filosofia spicciola, disincantata comicità sulle tristi sorti dell’umanità, con una tensione crescente alimentata dalla morte, dalla disperazione e dalla solitudine.
Degrado umano in un dormitorio dove i proprietari passano per riscuotere l’affitto delle misere brande alimentando i litigi fra quegli emarginati, una comunità di disoccupati, ladri, prostitute, nobili decaduti, umili lavoratori e sorelle che si odiano. In questo piccolo universo di relazioni umane precarie e violente, dove gli interrogativi annegano in fondo a una bottiglia di vodka, germogliano anche la passione per la lettura, l’interesse per l’apprendimento, spiragli di tenerezza, sogni. L’unico personaggio positivo di questo girone infernale è un principe africano, che esorta ad avere fiducia e credere nell’essere umano.
Quando giunge il vagabondo Luka un refolo di speranza si insinua in quelle anime afflitte. Santone o impostore, carico di anelli e collane sacre, infonde nei cuori un desiderio di riconciliazione esprimendo un personale concetto di spiritualità. È un pellegrino, è di passaggio, ma accende una luce di conoscenza mentre scende nell’abisso dei cuori. Essere artefici della propria vita e perseguire la propria verità piuttosto che accettare supinamente il dogma, sostiene. Sarà abbastanza per far cambiare rotta a quelle vite marginali? È il dramma che sottende le vite di tutti, tra lirismo e sofferenza: “Il mondo è meglio immaginarselo che viverlo” e “Siamo tutti pellegrini su questa terra…. e ho sentito dire che anche la terra stessa sia pellegrina nel cielo”. Nell’ebbrezza collettiva, ogni personaggio cade preda delle sue emozioni.
Un superbo Massimo Popolizio esprime la potenza dirompente del pellegrino nella veridicità delle affermazioni e nelle imbarazzanti verità e dirige con armonica autorevolezza quindici interpreti, tutti emotivamente intensi e parimenti protagonisti, che si muovono in scena con un sincronismo e un’agilità di naturale coreografia acrobatica (movimenti scenici di Michele Abbondanza), saltando, spostando e scavalcando i praticabili che fungono da giacigli e da rampa di accesso in scena (scenografia di Marco Rossi): Giovanni Battaglia, Gabriele Brunelli, Luca Carbone, Martin Chishimba, Giampiero Cicciò, Carolina Ellero, Raffaele Esposito, Diamara Ferrero, Francesco Giordano, Marco Mavaracchio, Michele Nani, Aldo Ottobrino, Silvia Pietta, Sandra Toffolatti, Zoe Zolferino.
I costumi di Gianluca Sbicca virano dal logoro dei miseri ubriaconi all’etnico del principe africano allo stile borghese ed eccentrico della proprietaria. Le luci di Luigi Biondi spandono una tonalità ocracea sulla scena, che assume connotazioni caravaggesche quando l’illuminazione si dirige su un gruppo di attori lasciando in penombra tutto il contesto, mentre il disegno del suono di Alessandro Saviozzi rafforza i momenti significativi.
Sostiene Popolizio nel programma di sala: “Noi abbiamo immaginato come un “sottomondo” in cui succede ciò che succede nel mondo: sono sedici personaggi sono sedici tipologie umane che potresti trovare nel mondo “di sopra” e le vedi agire in quello “di sotto”. Abbiamo preso il materiale di Gor’kij e lo abbiamo esasperato innestando delle micro-inserzioni di altri testi e di altri autori: Čechov, Florenskij, Tolstoj, Puškin, dello stesso Trevi, persino di Cormac McCarthy. Questo innesto era necessario per dare ancora più spazio ai personaggi, non ha aumentato il volume delle pagine – che anzi si è ridotto – ma quello dei personaggi, aiutandoli a emergere. Tra tutti gli spettacoli che ho fatto, forse questo è il personaggio più difficile, perché mi sto chiedendo ancora: con che faccia lo interpreto? Che faccia ho? Per un attore è fondamentale. E allora una barba lunga, i capelli tirati indietro, gli occhiali scuri, vestito da pellegrino con le sneakers e la radiolina. E tutti i personaggi sono inventati. Abbiamo scoperto che meno naturalistici siamo, più veri risultiamo”.
Tania Turnaturi