Dalla pellicola al palcoscenico. Ferzan Özpetek, dopo “Mine vaganti”, rinnova l’operazione di adattare per la scena una sua pellicola di successo, riproponendo la peculiare cifra stilistica che connota le sue tematiche artistiche. Funge da trait d’union tra set e palcoscenico l’attrice feticcio del regista, Serra Yilmaz.
All’abbassarsi delle luci, si aggirano guardinghi per la platea dei personaggi, manifestamente stupiti di trovarsi in un teatro, poi salgono sul palcoscenico che si apre su una sala scarsamente illuminata, dominata da due grandi specchiere di inizio Novecento.
Sembra la rappresentazione di una vicenda d’epoca, allorché entrano un giovane e una donna accompagnati dalla proprietaria che decanta i pregi dell’appartamento che il ragazzo vorrebbe prendere in affitto, contro il parere della cugina che tenta di dissuaderlo.
Pietro, pasticcere catanese approdato a Roma per inseguire il sogno di recitare, si sente ispirato e conferma l’appartamento. Ben presto avvertirà la presenza di strani personaggi, ai quali si rivolge chiedendo chi siano e perché si trovino nella casa. Sono attori di una compagnia teatrale, che il tempo ha intrappolato nel 1943 mentre erano ricercati dalla Gestapo, e in quell’anno una compagnia teatrale è scomparsa misteriosamente. I fantasmi, abbigliati con costumi Anni Quaranta, chiedono di essere liberati dal maleficio.
Pietro è spaventato e inquieto, confuso anche sulla sua identità sessuale e sulle relazioni sentimentali, ha vissuto solo una notte d’amore con un uomo che ricerca ossessivamente e che lo minaccia, diffidandolo dal cercarlo ancora.
La cugina Maria, spumeggiante e ciarliera, cerca di scuoterlo e motivarlo, ma ride delle sue strane allucinazioni circa le misteriose presenze, che lei non avverte.
Quando rientra dai provini per il cinema o dal lavoro notturno di pasticcere, lo spazio reale di Pietro diventa metafisico, abitato dai coinquilini fantasmi, confidenti delle sue aspettative e delle sue frustrazioni, prodighi di consigli, amici empatici che lo sostengono nel coltivare un sogno. L’incontro con Ennio, un travestito che lo aiuta a guardarsi nel profondo e a puntare all’essenziale, spingerà Pietro ad adoperarsi per aiutare la Compagnia Apollonio a svincolarsi dal passato e a capire che, quando collaboravano con la Resistenza erano stati traditi per invidia dalla prima attrice Livia Morosini. Adesso potranno andare in scena con la loro commedia, il cui unico spettatore sarà Pietro, il solo in grado di vederli.
Una storia di amicizia, in cui si impara ad ascoltare la propria inclinazione e ad assecondarla, sospesi tra illusione e realtà, amore e cinismo, introspezione e visionarietà.
Gli specchi giganti, le luci soffuse e i costumi d’epoca amplificano l’atmosfera di misterioso immobilismo, che precede una rivelazione.
Il taglio intimista e spirituale del racconto ha evocato rimandi a due pièce fondanti del teatro italiano: “Questi fantasmi” di Eduardo e “Sei personaggi in cerca d’autore” di Pirandello.
Federico Cesari è Pietro, disorientato e sensibile, sorridente e ben disposto ad accogliere il mistero e la diversità, aprendo l’animo ai sentimenti, che fatica a contenere l’esuberante presenza della cugina Maria, una Tosca D’Aquino in stato di grazia che con effervescente vitalità riempie la scena e indirizza al giovanotto sapide battute napoletane. La compagnia fantasma è costituita da Serra Yilmaz nel ruolo di Lea che insegna a Pietro ad apprezzare la sensibilità che lo rende diverso, Luciano Scarpa nel doppio ruolo del travestito Ennio e dell’elegante Filippo, Toni Fornari è Ambrogio, Tina Agrippino è la cinica Livia Morosini e la squittente padrona di casa, Sara Bosi è Elena e Fabio Zarrella è il premuroso Luca e il rabbioso e aggressivo Massimo.
Nel finale, sono gli occhi ridenti di Pietro, riprodotti in gigantografia sul pannello di proiezione, ad esprimere la catarsi sua personale e dei suoi eterei amici.
Tania Turnaturi