I rigidi principi morali nella Sicilia ottocentesca di Giovanni Verga, dall’autore descritti nel romanzo epistolare composto dalle lettere che la giovane protagonista invia alla compagna di convento, emergono in tutta la loro virulenta potenza sulle tavole del palcoscenico, nell’adattamento drammaturgico di Micaela Miano che mette in primo piano la struttura culturale che permea la società dell’epoca.
All’interno di una cella conventuale si svolge il dramma di una giovane destinata dalla famiglia alla vita monacale e anche il dramma del padre, che ritiene di non poterle concedere un’altra scelta di vita.
Una madre superiora austera e arcigna, nella penombra ovattata dove nemmeno la luce penetra dall’esterno, rassicura l’uomo sulle condizioni della giovane, dedita alle preghiere e alla vocazione religiosa. Risoluta e categorica, serra nello scrigno del suo convento i cuori e le menti delle giovinette affidate alle sue cure dalle famiglie, spesso indigenti e impossibilitate a fornire alle femmine i mezzi per aspirare a un buon matrimonio.
Due pannelli scorrevoli con ritratti di antenati separano l’ambiente, trasformando lo spazio antistante nella casa della famiglia Vizzini, dove il padre racconta con enfasi accorata l’antefatto.
Rimasto vedovo, si risposa e ha altri figli e d’accordo con la moglie affida la bambina a un convento. Il destino di Maria è segnato, la vocazione le viene attribuita come un obbligo morale ineludibile. Piccola e fragile, come una capinera rinchiusa in gabbia, Maria è prigioniera delle mura del convento, dove l’unica interlocutrice è la compagna Marianna e immagina di sentire le urla di una novizia impazzita provenire da una botola sotterranea.
Quando nel 1887 a Catania scoppia il colera, che provocherà oltre 700 morti, Maria torna a casa per sfuggire al contagio. Dalle lettere che scrive a Marianna trapela il cambiamento interiore che scaturisce dalla vita all’aria aperta nella proprietà sul Monte Ilice, dove vive a contatto con la natura e si va insinuando un’avversione crescente per la vita monacale: “Il mio pensiero non è imprigionato sotto le oscure volte del coro, ma si stende per le ombre maestose di questi boschi, per tutta l’immensità di questo cielo e di quest’orizzonte…”.
A questo benessere emotivo si aggiunge la pulsione di un dolce sentimento per Nino, il figlio dei vicini, dal quale viene allontanata e riportata in convento, per inverare un destino già scritto. Nino sposerà la sorellastra Giuditta, Maria prenderà i voti e scoprirà l’esistenza di una suora rinchiusa nei sotterranei conventuali per sottrarla all’amore, ma la fiamma che le arde dentro le brucerà la vita.
Ispirato al caso reale di una giovane di Vizzini costretta a entrare in convento, il verismo verghiano emerge dalla descrizione della vita in campagna che esalta l’idea di bellezza del creato, del dolore della rinuncia all’amore e del tormento del genitore che ritiene peccato l’aspirazione alla felicità, che si alza la notte col cuore gonfio ma è convinto d’aver fatto la cosa giusta.
Torna il tema dei “Vinti”, non più umili pescatori ma borghesi ancorati a precetti decadenti, per i quali non ci sarà redenzione.
Enrico Guarneri, espressione della tradizione drammaturgica verghiana, è anche nella postura l’incarnazione di una mentalità che, attraverso le parole di Verga, assurge a manifesto di un mondo che si autoinfligge sofferenza pur di non derogare a precetti morali imposti dalla società. Ogni frase è vera e disperata nell’accorata implorazione alla figlia e nello straziante monologo finale in cui prevalgono regole convenzionali, non sentimenti. Di pari profondità l’interpretazione fresca e spontanea di Maria offerta da Nadia De Luca e di Emanuela Muni nelle vesti dell’anaffettiva madre superiora. In sintonia gli altri interpreti: Rosario Marco Amato, Verdiana Barbagallo, Federica Breci, Alessandra Falci, Elisa Franco, Loredana Marino e Liborio Natali.
La regia di Guglielmo Ferro amalgama il mondo esterno al circoscritto ambiente conventuale, rendendo fluidi i passaggi da una scena all’altra e dall’amore spirituale all’amore terreno.
Le scene di Salvo Manciagli evocano le diverse ambientazioni con proiezioni fluttuanti su fili di tende scorrevoli perennemente in penombra, gli accurati costumi sono della Sartoria Pipi, le suggestive musiche di Massimiliano Pace.
Dalle note di regia: “Se Maria è vittima, non lo è dell’amore peccaminoso per Nino che fa vacillare la sua vocazione, ma lo è del vero peccatore ‘verghiano’ che è il padre Giuseppe Vizzini.
Giuseppe che, rimasto vedovo, manda in convento a soli sette anni la primogenita, condannandola all’infelicità. Un uomo che per amore, paura e rispetto delle convenzioni causa a Maria la morte del corpo e dello spirito.
È sul drammatico rapporto padre figlia, sui loro dubbi e tormenti che si mette in scena la storia della Capinera. La stanza del convento è il centro della scena, Maria non esce da quella prigione, e il padre Giuseppe ne è il carceriere. Entrambi dolorosamente vittime e carnefici.
Ogni evento che deflagra nella mente di Maria, ogni personaggio altro che scardina il viaggio del noviziato di Maria, sono gli elementi drammaturgici per sviscerare il dramma interiore di un padre che finisce per uccidere la figlia. È il racconto di legami infelici, di dinamiche familiari per noi oggi impossibili da immaginare ma che Verga racconta con l’inesorabilità di una condanna.
Con Progetto Teatrando, nel meraviglioso percorso teatrale attraverso i capolavori verghiani approdiamo all’atto finale, Storia di una Capinera, scegliendo la versione più violenta e disperata della scrittura di Giovanni Verga.
Non c’è redenzione per Maria, non c’è redenzione per il padre Giuseppe, e nemmeno per noi. Perché la redenzione non appartiene alla Sicilia di Giovanni Verga”.
Tania Turnaturi