La commedia greca con Aristofane e la fabula palliata latina con Plauto stigmatizzando vizi e delineando caratteri, mettono in scena un’umanità che dall’antichità si proietta alla contemporaneità con le stesse furbizie e i medesimi problemi affrontati con immutata sagacia.
Aulularia o Commedia della pentola è uno dei testi più noti di Plauto scritta intorno al II sec. a.C. Il tema del vecchio avaro che vuole sottrarre il suo denaro alle voglie di chi tenta di derubarlo è transitato nel teatro moderno, ispirando il teatro del Seicento con l’Avaro di Molière fino alla filmografia di Totò e perfino lo Zio Paperone di Disney.
Il finale col quale viene rappresentata, essendo l’ultimo atto molto frammentario, è stato scritto nel XV secolo dall’umanista Urceo Codro.
L’adattamento liberamente tratto da Roberto Lerici italianizza i nomi dei personaggi rispetto all’etimologia greca originaria ed amplifica la “contaminatio” della palliata plautina che caratterizzava la commedia latina di ambientazione greca, con manipolazioni e perfino qualche stravolgimento secondo una visione personale, con ulteriori contaminazioni apportate dal regista Carlo Emilio Lerici per evidenziare l’attualità delle tematiche e l’universalità dei caratteri umani, restituendo alla commedia latina la sua dignità di rappresentazione che suscita la risata proponendo contenuti come il servo astuto, l’intrigo amoroso, la beffa, la caricatura e lanciando ammonimenti.
La reinterpretazione in ottica contemporanea decontestualizza in parte l’ambientazione e arricchisce la recitazione con innesti riferiti al contesto attuale anche nelle volgarità e nel ricorso ai dialetti, che rendono più incisivi ed estemporanei le esternazioni e stimolano l’interazione comica con il pubblico.
Il connubio tra modello greco, teatralizzazione romana, attualizzazione dialettale e gergale ci restituisce un’opera spassosamente contaminata, dal ritmo incalzante, sintesi della globalizzazione odierna e riflesso del crogiuolo di popoli della Roma di Tito Maccio Plauto.
Catenaccio teme che i ladri gli rubino la pentola d’oro che ha trovato in casa e intima il silenzio alla serva Uvaccia. Abbrutito dall’avidità, promette in sposa senza dote la figlia al vecchio Cicorione poiché ignora che è stata messa incinta da Lupetto, nipote dell’aspirante sposo. Il cuoco chiamato da Cicorione per cucinare il banchetto nuziale, pronuncia più volte la parola “pentola” e viene malmenato da Catenaccio che lo scambia per un ladro e poi cambia nascondiglio al suo tesoro, ma viene visto dal servo Saetta che spera di utilizzarlo per riscattare la sua libertà.
In una girandola di equivoci e comici assolo di ciascun protagonista, le cose si sistemeranno perché Lupetto rivela allo zio la nascita del figlioletto e ottiene il consenso a sposare Lucia. La pentola però sparisce, non essendo sufficiente la protezione degli dei contro l’avarizia che contagia chiunque la possieda, e sfuma così l’eventuale dote di Lucia…
Empatici e incontenibili tutti i protagonisti. Francesca Bianco è una serva ciarliera e sagace, eccellente contraltare dell’avido Catenaccio a cui Gigi Savoia concede inflessioni napoletane nei momenti di maggiore concitazione e una modulazione vocale che rimanda ad Eduardo, con il quale ha lavorato a lungo. Il cuoco si esprime con forte accento umbro nella fantasmagoria di equivoci, vivace gestualità e percosse. Affiatato il cast: Fabrizio Bordignon, Francesca Buttarazzi, Giuseppe Cattani, Germano Rubbi, Alessandra Santilli, Susy Sergiacomo, Roberto Tesconi e Tonino Tosto.
Essenziale la scena e bianchi i costumi di Annalisa Di Piero, musiche di Francesco Verdinelli.
Scriveva Roberto Lerici: “Questo Avaro è un uomo che si è ammalato per un possesso improvviso, quindi quello che conta per lui è il possesso e non l’oggetto del possesso. Da qui la spinta ossessiva a nasconderlo per non consumare il capitale ideale della propria infelice sicurezza. Intorno a questo nucleo quasi astratto, nascono i rapporti reali del quotidiano. Figli, amici, amanti, servi, ovvero vecchi, giovani, anziani che di fronte alla malattia del protagonista devono vivere controcorrente. Dunque l’avaro nel nostro caso è un “uomo” proprio in quanto malato, e non un caso patologico per meschina propensione. Perciò il comico di questo avaro è sempre sull’orlo del dramma. Al di là del riso c’è sempre un uomo che soffre per la propria condizione”.
Tania Turnaturi