Livermore dirige Il Trovatore di Verdi
Dopo le recite all’ultimo Festival Verdi di Parma, arriva a Bologna la versione de Il Trovatore di Davide Livermore, che con questa conclude la trilogia popolare verdiana dopo il Rigoletto e La Traviata. Ai bassifondi newyorkesi del primo e alla contestazione parigina del ’68 della seconda, segue qui una grande e desolata periferia in cui su tutto emergono cieli nuvolosi e luoghi semidistrutti e in fiamme. Merito delle proiezioni su un grande led-wall, questa è forse la prima messa in scena negli spazi del Comunale Nouveau, allestito provvisoriamente per le opere liriche nel periodo di ristrutturazione del Teatro Comunale di Bologna, che non risente di scenografie mozzate o create ad hoc per uno spazio non proprio adatto agli allestimenti lirici.
A dirigere l’opera verdiana Renato Palumbo, che vanta più di 300 repliche de Il Trovatore, con un’Orchestra del Comunale in splendida forma. Anche il Coro, presente in scena e diretto da Gea Garatti Ansini, da il suo meglio in tutte le sezioni. Palumbo valorizza le vibranti emozioni della partitura verdiana, creando grande empatia fra buca e palcoscenico, lasciando spazio interpretativo ai cantanti nei recitativi, liberi di personalizzare le arie a sostegno di una caratterizzazione dei personaggi in alcuni casi sorprendente.
Verdi indaga l’animo umano arrivando al cuore delle cose, in un’opera la cui narrazione segue diversi livelli e s’intreccia in vicende intricate e profonde. La zingara Azucena (Chiara Mogini) getta per errore il proprio figlio nel fuoco al posto del figlio del nemico per vendicarsi della condanna al rogo di sua madre. Crescendo così il rampollo del Conte di Luna, passa la vita fra l’amore verso quest’ultimo, Manrico (Roberto Aronica), e un mai spento fuoco di vendetta che le brucia dentro.
Il giovane Manrico, divenuto Trovatore, si strugge d’amore per Eleonora (Marta Torbidoni), così come il nuovo Conte di Luna (Lucas Meachem), suo fratello. Fra guerra, sotterfugi, odio e passione si dipana l’epilogo finale, che non può che culminare in tragedia.
Il primo cast si rivela più che all’altezza dei ruoli, a suo agio fra l’atmosfera felliniana che colloca Azucena e Manrico in un circo, contrapposta al potere qui malavitoso rappresentato dal Conte di Luna. Livermore ci regala, come nel suo stile, meravigliosi tableau vivant a sigillare le azioni più incisive, calzanti slow motion e grande partecipazione attoriale d’insieme.
Erika Di Bennardo