Quando si è davanti a uno spettacolo di Romeo Castellucci, bisogna essere pronti alla possibilità di vivere un’esperienza sensoriale dagli esiti disintegranti, che può provocare fastidio, ma anche attrazione. Niente di immediatamente intelligibile: perchè a teatro non si va per capire qualcosa in maniera univoca, è un’esperienza prettamente soggettiva che coinvolge in maniera totalizzante mente, corpo e sensi.
Siamo nella psiche di Bèrènice e tutto ci sfugge al controllo dell’attenzione: la nota attrice francese Isabelle Huppert recita in francese e si muove nello spazio scenico come una presenza-assenza fantasmatica dentro un non-luogo indefinito popolato di comparse, ma anche gremito di respiri, sospiri, suoni. Si tratta della partitura sonora creata da Scott Gibbson elemento imprescindibile all’interno di questo spettacolo di Castellucci, e non solo: “siamo sempre vittime della musica, che può superare l’epidermide della coscienza. Per questo il lavoro da fare con le voci è fondamentale”(Castellucci).
La scomposizione dell’essere umano negli elementi chimici di cui è fatto – i nomi degli elementi chimici sono proiettati sullo sfondo – si traduce anche in un esercizio vocale e linguistico quasi di stile e in coreografie d’impatto visivo, che creano un’opera d’arte visivo-sonora di tipo orchestrale nella cornice di FOG Performing Arts Festival con Bérénice, riscrittura dell’omonima tragedia di Jean Racine ad opera di Romeo Castellucci, Grand Invité alla triennale di Milano dal 2021.
Per 90′ minuti dobbiamo guardare i sottotitoli che si susseguono velocemente proiettati in una posizione scomoda ai fini della fruizione. Dobbiamo sforzarci per intravedere cosa c’è dietro un telo-nebbia che limita la vista, dobbiamo ascoltare una donna che si lamenta, parla del suo dolore profondo, si strugge, interroga i suoi interlocutori. Un martello scandisce il tempo battendo sulla statuetta di un cane, come a voler cronometrare i tempi previsti per la sparizione di Bérénice, perchè questa donna si sta dissolvendo.
Mentre non si vuole perdere in alcun modo il filo del discorso, si cerca di capire cosa sta accadendo dietro quel telo. Il rapporto tra forma e caos dal testo di Racine si trasferisce sulla scena. “Roland Barthes parla di una nebbia di parole, di una nuvola che avvolge ogni personaggio” (Castellucci).
É in questa nebbia che si è persa Bérénice, ma “basterebbe una parola per rassicurare il mio animo smarrito” – dice.
Bérénice è stata abbandonata da Tito, che ha scelto la legge all’amore. Tito, tornato vittorioso dalla prima guerra giudaica, deve succedere come imperatore romano al padre venuto a mancare. Durante la campagna bellica ha incontrato Bérénice la principessa giudaica di Cilicia e se ne è innamorato. Ricambiato, promette di tornare a Roma con lei per sposarla. Nel frattempo anche Antioco amico e alleato di Tito e re di Commagene è a sua volta innamorato della principessa e le confesserà il suo amore. Nel frattempo Tito viene a sapere dell’opposizione del Senato e del Popolo Romano alle sue nozze, dovuta al fatto che, nella Roma imperiale non era ben vista l’unione dell’imperatore con una regina straniera, nè il Senato accettava forme di monarchia. Tito si vede così costretto a rinunciare alla nozze con Bèrènice, ma non avendo il coraggio di affrontare la conversazione, chiede ad Antioco di dare la triste notizia a Bèrènice (Sinossi).
In scena predominano il bianco – di quel velo da sposa non indossato che viene tirato fuori da una lavatrice su una scena spoglia circondata di lenzuola svolazzanti – e il rosso porpora molto usato dagli imperatori nell’antica Roma insieme al bianco.
Qui si compie il monologo di Bèrènice con i suoi interlocutori, Tito, Antioco e Fenice la sua ancella, che non saranno mai presenti in scena, ma sono come ologrammi e ombre mobili dietro lo sfondo. Si dibatte questa donna distrutta tra illusioni, dolci ricordi, speranza, disperazione, desiderio estremo di attenzione. Il monologo si alterna a coreografie di comparse in scena, direi più rituali identici reiterati verso l’appiattimento dell’azione, la staticità. La voce di Huppert, vera protagonista di questo spettacolo, diventa una cosa sola con la partitura di Gibbson, sottoposta a effetti di duplicazione della parola enunciata e non solo. Un delirio psichico e sonoro “contano così poco per voi le lacrime di Bèrènice?”
La solitudine e il senso di abbandono diventano estremi, quando la regina, ormai ridotta allo stato di mendicante, deve rivolgersi alla sua immagine allo specchio, non ricevendo risposte dai suoi interlocutori immaginari e silenziosi.
Pensa al suicidio, Bèrènice. Dice addio per ben tre volte, diventa balbuziente. Le parole si scompongono, si frammentano, mentre dei grandi fiori rossi si appassiscono sullo sfondo. Agghiacciante l’urlo finale “Ne me regarde pas” impastato delle composizioni febbrili di Gibbson, così intenso e riempitivo, da lasciare un senso di vuoto appena si conclude.
La regina giudaica sceglie di andarsene. Si dissolve. Scompare.
Neppure riusciamo più a intravederla in quella nebbia.
Resta il nulla, l’annientamento delle emozioni, il silenzio, il vuoto.
Bèrènice di Romeo Castellucci è uno spettacolo da cui si evince un grande lavoro di scrittura scenica e di riscrittura drammaturgica dagli esiti non scontati, che tuttavia rischia di sfociare più nel tentativo di un esercizio sulla ricerca della forma perfetta e sulla bellezza.
Del resto però, l’arte è bellezza.
Lavinia Laura Morisco