Dal 26 al 30 Giugno 2024, Rovigo
Festival OPERA PRIMA 2024 (XX Edizione)
Dal 26 al 30 Giugno 2024, Rovigo
OPERA PRIMA 2024 pare nascere da un disegno fatale che obblighi all’eccezionalità, tra duplici anniversari e protagonistico impeto degli elementi. La ventesima edizione del festival rodigino, venuta a cadere nel trentennale della sua fondazione, è stata preceduta da una tromba d’aria che ha causato non pochi disagi nell’abitato di Rovigo esattamente alla vigilia della prima giornata di eventi. Per contro, cieli soleggiati e calure robuste hanno poi incorniciato cinque giorni di un programma corposo, innervato dall’incrocio di linguaggi e percorsi plurimi: musica, danza e naturalmente teatro, tra spettacoli storici e nuovi progetti, corroborati da momenti di approfondimento a contatto con gli artisti, ma due incursioni nei territori del cinema e della poesia hanno rubato l’occhio.
Si riconosce e si conferma la presenza di una linea editoriale che mira alla trasversalità, di tipo generazionale quanto socio-culturale: azioni urbane dalla cifra spiccatamente corporea attraversano in orario pomeridiano il cuore della città (la variopinta Piazza Vittorio Emanuele, contornata lungo tutto il perimetro da locali gremiti di turisti e cittadini locali), mentre la quiete della tarda sera avvolge piccoli concerti di musica leggera performati da giovani artisti, a chiudere ritualmente il programma della giornata tra i tavolini del pub che fiancheggia i giardini.
La città come corpo e la comunità cittadina come suo sistema nervoso sono il target cui il teatro contemporaneo mira senza indugi e senza intermediazioni nel tempo attuale, anche solo per lambirlo, con coscienza o per casualità. Siamo ormai ben al di là della ricerca dello spettatore non abituale, del fruitore comune, alternativo alla nicchia degli addetti ai lavori, degli “abbonati” o degli aficionados. La performance non cerca più soltanto la compartecipazione sensoriale, emotiva, corporea di chi si è condotto e raccolto attorno ad un appuntamento in un luogo deputato. Nasce bensì per l’occhio e lo spaesamento effimero di chi ne viene investito, mentre questi è ignaro, intento in tutt’altro e mentre la performance muove arbitrariamente verso di lui o lei, l’affianca per qualche secondo e procede oltre.
E’ il caso paradigmatico di SIRENE, progetto site specific di Sara Vilardo: un percorso guidato lungo gli spazi urbani, secondo un tracciato per nulla turistico, puntellato di “non luoghi” dove il corpo della città coagula le sue isole di ordinarietà schietta e trasparente. Eppure, non siamo al cospetto di un’estetica del dimesso, del dismesso o del deteriore. E’ l’indagine sul movimento il nucleo generativo di questo lavoro itinerante calibrato per piccoli gruppi di partecipanti (massimo dieci per volta) che si replica lungo le diverse ore del giorno. Movimento come innesco di un processo, correlativo oggettivo del viaggio, inteso a sua volta quale allontanamento da un sistema valoriale fatto di dimora, sicurezza, protezione, consuetudine. Passo dopo passo, tappa dopo tappa, l’andare collettivo – sovrapposto al pulsare della città, colta nel dinamismo del suo ritmo quotidiano – transustanzia infine in un rito intimo di abbandono, gravido di una intera gamma di proliferazioni cognitive, dalla metabolizzazione della perdita all’apertura verso il nuovo, dove l’inedito non si identifica con il buio ignoto ma si percepisce come riscoperta libertà e rinnovata possibilità.
Questo rovesciamento dallo spazio esterno alla dimensione interiore, dall’esperienza pubblica a quella individuale viene alimentato e protetto dall’uso di cuffie bluetooth, unitamente ad un kit di strumenti d’uso più semplice e primario che tuttavia concorrono alla personalizzazione dell’esperienza.
Un tappeto sonoro, fatto di suoni registrati e parole, irrora il cammino favorendo il processo trasformativo dell’azione corporea collettiva, che progressivamente ascende al piano della riflessione individuale sui temi che il progetto intende studiare: la definizione del concetto di casa, la sommatoria di conflitti e legami connessi con il nostro passato, sentimenti di attaccamento e libertà dagli oggetti (ogni elemento, ivi compresi gli spazi urbani selezionati, è tuttavia declinazione del mito di Odisseo e del suo errare).
Non di meno, accade che il procedere compatti in schiera ordinata e la dotazione individuale di cuffie striate di spie luminose, trasformino i partecipanti da fruitori in attori di un’azione scenica estemporanea prodotta a favore della cittadinanza intercettata lungo il percorso. Passanti, avventori di bar, riders e automobilisti assistono allo spettacolo criptato della loro città che muta pelle sotto i loro stessi occhi, perdendo i connotati consueti e prevedibili in nome di ragioni inintelligibili.
Questa mutazione dello scenario urbano tramite l’azione scenica outdoor si ritrova anche nella CHIAMATA PUBBLICA di Teatro del Lemming, laboratorio aperto a tutti i partecipanti, senza limiti di numero né requisiti di esperienza pregressa, ed offerto a tutti gli “uditori” che vogliano osservarne la restituzione in tempo reale, dando vita ad uno scambio giocato sullo sguardo e sulla percezione tutta: i cinque sensi che l’attore esplora in profondità come missione primaria del suo lavoro.
Coinvolgimento sensoriale avvolgente, spettacolo come strumento di collettività e comunità: sono fattori che ricorrono e risaltano subito in questa “edizione anniversario” di Opera Prima, caratterizzando fortemente le esibizioni di gruppi come Psycodrummers e Collettivo Rosario, dove la performance musicale tende a fondersi con quella corporea e con la ricerca dell’effetto visivo; in egual misura, illuminano la leggibilità universale insita nella spettacolarità popolare, quasi circense del QUIJOTE di Teatro Nucleo; secondo altre rotte, alimentano infine la sperimentazione geroglifica di Giselda Ranieri e Zoe Pia in VETRO o la leggerezza intrattenitiva di LINEARITY proposto da Joshua Monten.
Prendendo a prestito la metafora fluviale – per nulla peregrina in sede polesana – un tale concetto di spettacolo somiglia all’affluente che viene a corroborare il fiume che lo riceve e contiene. Parliamo del macro-segno che concepisce lo spettacolo come esperienza, forzando i confini della dimensione estetica per raggiungere la persona del singolo spettatore, riattualizzando la funzione antica del teatro come rito. In questo solco, pur intersecando motivi e segni diversissimi, troviamo affiliati lavori come TEATRO DA MANGIARE? (Teatro delle Ariette), ATTORNO A TROIA_Troiane (Teatro del Lemming) o RIVOLTI (Momec).
In RIVOLTI, lo spettatore si scopre davvero e fattivamente autore dell’azione performativa, ma si tratta di uno svelamento improvviso, sorprendente, che avviene solo alla fine del percorso dettato con tocco impalpabile dall’attore (l’attrice, in questo caso), demiurgo titolare della scena: un’installazione che, secondo la cifra riconoscibile del collettivo Momec, evoca la struttura di una casa, eletta quale scrigno della memoria. Parola scritta e parola detta, confessione intima e dimensione pubblica si sovrappongono e fondono in un momento breve come uno sguardo, forte e delicato ad un tempo, come lo squarcio d’un velo.
Moltiplicazione di livelli che torna in ATTORNO A TROIA_Troiane, dove la parola è appannaggio di una vocalità singola, che aleggia alta altrove, fuori campo, per rifrangere in significato sulla scena fisica tramite l’azione tumultuosa impressa dai corpi molteplici degli attori. Lo spettatore non può sottrarsi, solo può affidarsi. Il suo movimento viene agito, sospeso tra le polarità di un dolore umano inane e un’armonia cosmica perduta, tradita, pur sempre perseguita.
Parallelamente, in TEATRO DA MANGIARE? l’atmosfera bonaria di una tavolata verace (con tanto di vino rosso, salame e tagliatelle rigorosamente autoprodotte) viene problematizzata dall’aggiunta di “sapori” contrastanti, proprio come avviene con il cibo. Si fa spazio il colore denso del dolore, il baluginio della commozione, la trasparenza lunare di una stralunata illusione (ingenua o sapiente?), dove i sogni perduti aleggiano irraggiungibili, eppure si conservano intatti. Così, una manciata di grano è quanto resta di un interrogativo ultimo: “di cosa è fatto il teatro?”
La riflessione sul genere teatrale raggiunge paradossalmente il climax con la visione della pellicola TODOS LOS MALES di Simone Derai (collettivo Anagoor). Teatro che si guarda tramite l’occhio della camera, si spagina dalla necessità del qui ed ora tramite gli andamenti del montaggio cinematografico, si perde illusivamente, narcisisticamente nella cornice dell’inquadratura. L’atto della rappresentazione diviene metafora perfetta dello sguardo deformante imposto dal potere dominante tramite la codificazione culturale di storia e natura.
Spesso ridotto ai minimi termini, per scelta pervicace o protettiva necessità, il teatro sembra cercare la propria purezza tramite la fusione di corpo e parola, come avviene nello IAGO di Roberto Latini, dove l’anti-eroe shakespeariano è colui che agisce parlando, ma reifica la sua sostanza letteraria nella carne di un attore che prova la sua parte e la mette in scena.
Una fusione che sembra procedere, avanzare ulteriormente in VOODOO di Masque Teatro, dove la parola è soppressa e il corpo assume su di sé l’insieme dei codici linguistici. L’azione è frutto di una lotta estenuante, basculante tra controllo e perdita di controllo, ove l’energia dinamica è prodotta da un continuato, reiterato alternarsi di apertura e chiusura corporea. La gestione di tale energia da parte della performer (una perturbante Eleonora Sedioli) coincide con la durata dell’azione scenica, facendo leva sulle articolazioni e precarizzandone immediatamente il sostegno. La perfomance si identifica con un atto di “controllata” cessione di controllo, operata sulla materia prima del corpo in scena.
Torna utile a questo punto la metafora fluviale: dopo aver indagato nella trasparenza dell’acqua non resta che gettare lo sguardo sull’altra sponda, nuovamente sulla terra ferma. E’ dunque dalla danza che un tale percorso di (ri)generazione artistica – multiforme quanto coerente e condiviso – può forse addivenire ad un compimento. L’interrogativo è d’obbligo e, puntuale, ci attende già, nel tempio del teatro, come in un appuntamento finale previsto sin dall’inizio.
WHAT DID I JUST DO? di Fabio Liberti è un lavoro coreografico in cui la partitura fisica va ad inscriversi nel testo autobiografico messo a punto dalla danzatrice che è in scena. La parola di Maud Karlsson viaggia a velocità sostenutissima, imponendo un ritmo incalzante che il corpo non tenta di governare. E’ anzi sostanza incorporea, almeno inizialmente: risuona nella traccia sonora registrata che scorre fluida mentre in scena l’azione fisica si polverizza dentro l’esecuzione di posture, gesti minimi, utilizzo criptico di oggetti componibili decorati da ideogrammi coreografici.
E anche quando la parola scende a terra, assumendo infine la voce e il respiro “tangibili” di Maud, il ritmo resta invariato. Eppure qualcosa cambia, sostanzialmente: la scena si libera d’ogni ingombro, l’artista ci guarda, parla direttamente a noi. In questo nuovo canale di comunicazione l’azione trova posto solo gradatamente e per affiorare in superfice ha bisogno di aderire adattivamente ad un corpo vivo. Finalmente, trova una forma definita, per quanto impermanente, come la materia organica. Come la vita.
La matrice corporea della danza, pur lavorando in sottrazione estrema, ha impresso la sua forma sulla sostanza della parola con l’effetto di sottrarla al tempo, lasciando alla poesia il compito di colmarne il vuoto. E’ dunque il grado pristino della parola poetica il grande mare in cui le diverse correnti dell’arte performativa trovano infine il loro esito naturale, la loro pacificazione, dimora nel moto perenne.
Con L’URLO E ALTRE FALISTRE, Marco e Massimo Munaro raggiungono il crinale dove poesia e teatro convergono. Una linea di confine che non serve per esser superata, che si può anzi mantenere, seguire a perdita d’occhio, percorrere assieme. Qui il tempo è sospeso ma quanto mai presente, incarnato nelle azioni, vibrante in ogni cosa. Non è più la durata misurabile di un’azione, non è più sostanza che si consuma. E’ dimensione dell’esperienza, densità estrema contenuta in egual misura nell’attimo e nel secolo, il giorno e la decade, le ore e le stagioni.
La verità che la parola poetica rivela è semplice quanto arcana: tutto è unico e molteplice, anche il granello, la “falistra”, la voce e l’eco, il momento e il suo ricordo.
Tutto è duplice: il tempo vissuto adombra la presenza del tempo perduto.
Davanti a noi, la nuda scena, agitata di pagine soltanto e della fiamma tremula di una candela, genera reiteratamente doppi concentrici. Due corpi, due voci. Il poeta e l’attore. La parola e la musica.
D’un tratto, la parola detta si fa parola cantata, ma è puro riverbero, iridescenza della trasparenza, rifrazione di un lucore che muove nella finta inerzia della parola, salvata dalla poesia.
Tutto è duplice, affratellato, testimone e compagno di tutto il tempo vissuto.
Paolo Verlengia
CREDITS:
Progetto e Direzione: Associazione Festival Opera Prima
Coordinamento Artistico: Massimo Munaro
Amministrazione e Logistica: Katia Raguso
Organizzazione e Ufficio Stampa: Diana Ferrantini
Sito Web: Veronica Di Bussolo e Massimo Marchetto
Grafica e Comunicazione: Marina Carluccio
Staff Tecnico: Silvia Massicci, Alessio Papa, Roberto Lunari, Matteo Fasano, Rosa Parini, Maria Selene Farinelli, Veronica Di Bussolo
Assistenza: Fiorella Tommasini, Leonardo Piana
Biglietteria: Elena Ferretti, Maria Grazia Bardascino
Programma completo del festival: https://www.festivaloperaprima.it/it/