Al Teatro Ambra Jovinelli di Roma fino al 27 ottobre 2024
Tra storia e leggenda, aneddoti e contraddizioni di Napoli.
San Gennaro è un santo umano, comprende le richieste dei napoletani, non giudica chi gli chiede protezione anche nel commettere reati purché senza conseguenza per le persone, non si offende per gli ‘insulti’ perché “la fame vince sulla morale”. San Gennaro è padre, madre, zio, nonno, figlio, compagno, amico, patrono, ‘faccia gialla’ per via del busto d’oro, depositario del più grande tesoro della terra, donato da sovrani e povera gente.
È un legame di sangue quello tra il patrono e i napoletani, una rossa scia che lega i martiri della Repubblica Partenopea del 1799 all’emorragia dell’emigrazione in America nel Novecento, con gli emigranti che dalla nave sul molo dell’Immacolatella tenevano in mano un gomitolo mentre il capo del filo lo tenevano madri, sorelle o mogli, e confidavano che più a lungo avrebbe resistito il filo prima di spezzarsi tanto più breve sarebbe stato il distacco. È il sangue dei caduti della seconda guerra mondiale, quello delle vittime di camorra.
È il fil rouge che annoda anche episodi del mito, dall’uovo magico che il poeta Virgilio nascose nei sotterranei e su cui si reggerebbe Castel dell’Ovo, a Lucifero che precipitato sulla Terra dà origine al Vesuvio e i pezzi di paradiso che si staccano dalle ali generano il golfo.
Roberto Saviano, con la compostezza e l’accuratezza delle sue indagini storiche, racconta le vicende terrene di Ianuario, cognome trasmigrato in nome, divenuto santo e infine mito. La liquefazione del suo sangue, raccolto in due ampolline dalla nutrice al momento della decapitazione nel 305 d.C. nella Solfatara di Pozzuoli, è presagio di buona sorte o di sventure, calamità, eruzioni del Vesuvio tenute lontane da Napoli per sua intercessione.
San Gennaro protegge solo i napoletani, ma dispensa prodigi in tutto il mondo perché molto venerato. È merito suo se la Costituzione americana si è ispirata a Gaetano Filangieri nell’assunto della ricerca della felicità. Il santo venne perfino ritenuto giacobino nel 1799, quando lo scioglimento del sangue fu interpretato come sostegno alla repubblica proclamata a Napoli il 22 gennaio, dopo la fuga della corte in Sicilia di fronte all’avanzata francese. La restaurazione borbonica, cinque mesi dopo, giustizia i patrioti che vi avevano aderito, come l’impiccagione in piazza Mercato del medico Domenico Cirillo. Rosso il sangue del santo nelle ampolle, grumo nerastro come lava solidificata del Vesuvio quello degli altri martiri.
Ai racconti di Saviano, si alternano le rappresentazioni degli ‘atti di sangue’ di Mimmo Borrelli che incarna il Santo col pastorale e la mitria, il boia che lo decapita reggendo sulle spalle una doppia falce, il luciferino Satana dalla maschera mostruosa (costumi di Enzo Pirozzi), su una scena che allude a uno scorcio di rovine di paesaggio seicentesco illuminata da fiaccole, con ruderi circolari che ruotano a suggerire un patibolo, un antro, la prua di una nave, su cui incombe una scheletrica struttura arborea (scene di Luigi Ferrigno, luci di Salvatore Palladino).
Gutturale, arcaica, latineggiante, tonitruante, la lingua di Mimmo Borrelli squarcia l’etere con sonorità evocanti visionarie rappresentazioni, una colata sonora di lava incandescente che si fa immagine e suggestione, incarnando nel corpo e nella declamazione vittime e protagonisti del racconto. Corpo e parola, fusi in simboli icastici di una storia che si fa mito, il mito diventa credenza.
Saviano racconta e fustiga in lingua dotta e qualche incursione nella contemporaneità, con la tensione etica che lo caratterizza. Borrelli irrompe con strida gutturali e violente invettive, da profeta invasato e viscerale che lancia endecasillabi e versi in varie metriche e varie lingue (dal latino al napoletano), utilizzando anche il corpo come martoriato mezzo di una espressività ancestrale, che si conclude con un lungo pezzo di “Napucalisse”, istantanea di una Napoli martoriata, disperata e blasfema, in cui il ritmo ascendente delle parole è sostenuto dall’incalzare della musica nella disperata invettiva che si scioglie in invocazione, percuotendosi il petto: “Napule venitece vuje / Napule a campa’ ccà / Napule nun me ne fuje / Napule je schiatto ccà / Napule ‘int’a ll’anema / Napule tumore / Napule senz’anema / Napule r’ammore”.
Amalgama i diversi registri della drammaturgia la musica eseguita dal vivo da Gianluca Catuogno e Antonio Della Ragione, che contribuisce a sostenere ed assecondare i ritmi delle due partiture, nella sanguigna regia di Mimmo Borrelli.
“Sanghenapule” è un’esperienza catartica che affiora dall’emotività, che indaga i legami tra l’alto e il basso, che emerge da un vortice di parole iperboliche e di parossistici scuotimenti corporei, che dall’umano ascende al sacro.
Tania Turnaturi