‘A cosa servono i russi’ è andato in scena al Teatro di Fiesole
Il titolo del monologo che Paolo Nori ha portato in scena a Fiesole qualche sera fa è una domanda senza punto interrogativo, una domanda ‘indiretta’, come ci spiegano a scuola. Una risposta però c’è, e molto diretta in realtà, anche se forse soggettiva, forse non definitiva, forse inutile. A cosa servono i russi è una riflessione proprio su questo: sulla necessità di trovare risposte nella letteratura, e non sulla letteratura. E in attesa che Nori, alla fine del monologo, ci dia la sua straziante, bellissima risposta, anche noi ci mettiamo alla ricerca della nostra. A cosa servono i russi? A cosa serve Dante? A cosa serve qualsiasi autore antico, moderno o contemporaneo? Bella domanda.
E quando si parla di letteratura si parla necessariamente anche della materia di cui è fatta, ovvero della lingua. Lingua che, per Nori, sembra essere un organismo vivo, qualcosa che scava dentro e si manifesta all’esterno, come un’eruzione cutanea, una ferita aperta. Quella di Nori è una lingua agìta, un atto che parte dalla mente e smuove il corpo in un gesto incontrollato.
Così anche la commozione torna ad assumere il suo significato etimologico originale di ‘muoversi insieme’, in un’azione collettiva che coinvolge anche l’interlocutore e crea una connessione che va al di là delle parole. Il dolore delle ferite altrui diventa anche il nostro, proprio come nella letteratura ben riuscita, e riapre ferite che pensavamo rimarginate e che invece sanguinano ancora.
La lingua degli scrittori russi è una lingua del popolo, un volgare direbbe Dante, e così fa Nori parlando di loro e di sé stesso, e di quanto le centinaia di chilometri e di anni che li separano valgano un niente, se quelle ferite si riaprono e si rimarginano allo stesso tempo a suon di parole. Una lingua semplice e terrena, come il dialetto parmigiano, che restituisce al racconto una corposità reale. Pensare la letteratura come qualcosa di alto e nobile è senza dubbio affascinante, ma se la letteratura deve smuovere, allora che si faccia carne, ferite e sangue. Alto in fondo è solo una direzione, a percorrerla deve essere un corpo, una forma suscettibile agli urti.
A cosa servono i russi parla una lingua fisica, che occupa uno spazio e che porta con sé la memoria di una tradizione, ma anche il battito del tempo presente. È un monologo personale e universale insieme, che attinge dal vissuto e dalla quotidianità – anche quella dei social, anche la più becera – per interrogarsi sui temi alti e dare loro una direzione nuova, verso sé stessi.
Dostoevskij, Puskin, Gogol, Mandel’štam, Achmatova, Tolstoj, Brodskij, Dovlatov. I russi, autori di temuti testi lunghi e difficili, diventano innocui profili in bianco e nero, volti con espressioni incerte, che sembrano avere ben più domande che risposte. E anche quando tra le immagini appare Dante – inaspettatamente l’unica figura a colori tra quelle curate da Claudio Sforza – il monologo si arricchisce di nuovi racconti, nuove ferite, nuovi interrogativi. Mai di certezze assolute. Chi non appare mai è Carmela, la nonna di Paolo Nori, che non era russa ma con gli scrittori russi c’entra parecchio (non posso dirvi perché, questo lo scoprirete da soli a teatro). Nonna Carmela è una contadina che si è guadagnata il diritto di parlare spaccandosi la schiena, e una sua foto in bianco e nero non sarebbe stata abbastanza. È la sua voce che conta, e quella si sente: importa solo questo.
Quello di Nori è un teatro di pura narrazione, di lingua più che di interpretazione, di punti di vista più che di visioni, di sangue più che di sudore. Se il teatro è quel luogo in cui la parola e il copro si incontrano, quello di Nori è un teatro in cui la parola si fa corpo. Una transustanziazione laica e volgare, che parla un po’ russo e un po’ parmigiano. Che detta così spaventa, molto più di un’Anna Karenina, e invece a vederla, ad ascoltarla, a commuoversi con lei, fila liscia come una risata.
Quindi, a cosa servono i russi? Forse, come la letteratura tutta, servono proprio a questo: a porsi delle domande e, mentre cerchiamo le risposte, a trovarne altre e altre ancora a cui rispondere. Una faticosissima meraviglia, di cui nonna Carmela andrebbe fiera.