In scena al Teatro Belli di Roma fino al 24 novembre 2024
Un viaggio nell’inconscio in un noir d’autore dall’epilogo inaspettato.
In una stanza in penombra con un arredamento anni ottanta e un grande televisore d’epoca, alitano due voci: la femminile insiste nel voler accedere all’appartamento, quella maschile oppone l’impossibilità di entrare essendo sottoposto a sequestro giudiziario come scena del crimine.
Nell’ambiente, infatti, incombe la presenza dell’inquilino che la abitava, la cui sagoma è disegnata a terra, informandoci che è stato assassinato.
La donna riuscirà sulle scale a convincere l’uomo che possiede le chiavi ad aprire la porta, e i due entrano in scena.
Lo scambio di battute procede ininterrottamente, serrato e incalzante, con un lessico impeccabile e una sintassi strutturata, col compiacimento di qualche locuzione latina o modo di dire francese.
La pièce è stata scritta da Giuseppe Manfridi a vent’anni e contiene in nuce tutta la vocazione drammaturgica dell’autore e gli stilemi della sua scrittura.
La schermaglia avanza rapida e concitata, in un crescendo che attraversa vari registri di linguaggi, considerazioni e variazioni emotive.
Lei è vestita di nero con una certa cura (costumi di Antonella Balsamo), minigonna stretch, cappotto e neri i guanti in pelle coi quali maneggia il bicchiere in cui si versa il whisky, fuma una sigaretta e afferra il portacenere, fruga nella borsa estraendone vari oggetti e osserva l’ambiente con attenzione, sempre più incalzante, pervasiva, insinuante, implacabile.
Lui nega di essere il portiere, piuttosto un condomino o, tuttalpiù, l’amministratore. È restio a fornire informazioni sugli altri condomini e vuole che la visita si concluda al più presto, è timoroso che i vicini sappiano e possano accusarlo, risponde balbettando di lavorare il marmo (quindi forse è uno scultore!), sembra voler evitare di ammettere qualcosa di indicibile o di compromettente, desidera sottrarsi a quello stillicidio di illazioni che lo sferzano e a tratti lo costringono a ribattere con tono rabbioso.
Entrambi non hanno un nome, la donna non ha nemmeno un ruolo. Forse ha uno scopo.
Con piglio deciso sostiene che quella stanza è una garçonnière e trova oggetti che conosce o che l’uomo afferma di conoscere, e glieli consegna.
Ogni volta che lei accende il televisore dal quale fuoriescono inequivocabili i gemiti di una donna, il disagio dell’uomo diventa vieppiù parossistico.
È un gioco al massacro, in cui lei domina e lui subisce con maldestri tentativi di blanda reazione, volgendo l’orecchio ai segnali di una festa d’antan dei maturi inquilini del piano superiore.
La potenza sovvertitrice della parola insinua dubbi, fraintendimenti e suscettibilità che trasformano il salotto in un agone, con un ritmo serratissimo senza esclusione di colpi e senza soluzione di continuità, con rivendicazioni che mettono la turbina agli eventi fino a precipitare nel finale, e mettono alla prova anche la bravura degli interpreti che si rimpallano le battute con tempi calibratissimi, senza nessuna caduta di tono, creando una tensione che si amplifica man mano che le parole si riflettono le une sulle altre come in un gioco di specchi.
La donna che geme di voluttà dal televisore, non visibile agli spettatori, diventa protagonista occulta e deus ex machina dell’impianto scenico.
Nel crescendo della battaglia verbale le parole risultano sempre più incisive e scavano nel profondo, facendo emergere verità taciute anche a se stessi, come un fiotto di coscienza.
Chi è la donna? È reale? È l’assassina tornata sulla scena del delitto per occultare le prove? Mette in atto un tentativo di seduzione e plagio? O è la proiezione immaginaria dell’inconscio dell’uomo nel misterioso legame con la vittima? È una seduta psicanalitica o il libero fluire della coscienza che si materializza?
Lo sapremo all’ultimo minuto. O forse nemmeno allora, poiché restano aperte le interpretazioni, nella stanza al buio, la stanza di un ironico thriller.
Giuseppe Manfridi, drammaturgo tra i più apprezzati del panorama teatrale contemporaneo, si esercitò giovanissimo con questa sua prima commedia che mantiene freschezza e immediatezza, e ha avuto varie edizioni, tra cui quella di trent’anni fa con la regia di Claudio Boccaccini, regista storico dei testi di Manfridi e capace di penetrare in profondità la sua scrittura, avendone seguito nel tempo l’evoluzione drammaturgica.
La potenza della parola scritta ha instaurato un felice connubio con la cifra recitativa degli interpreti: Stefano Scaramuzzino con il corpo e la mimica facciale asseconda i sentimenti che lo attraversano, Giulia Morgani è aderente al personaggio e lo caratterizza.
La regia di Claudio Boccaccini esprime la consuetudine e la sintonia acquisita con l’autore in una frequentazione più che trentennale, e ne sottolinea la surreale impostazione e la divertita ironia sulla scena claustrofobica di Salvatore Fucilla e Federica Scalera.
Tania Turnaturi