Andato in scena al Teatro Sala Umberto di RomaAl TeatroBasilica di Roma
“Vorrei una voce” si diceva Tindaro Granata in una fase di vuoto esistenziale e creativo. E una voce arrivò a rompere il silenzio, quella di Daniela Ursino, direttrice artistica del Teatro Piccolo Shakespeare all’interno della Casa Circondariale di Messina che gli proponeva di allestire uno spettacolo con le detenute di alta sicurezza, per stimolarle a vivere e a risvegliare la femminilità: “Il Teatro per Sognare”. Quando l’attore le incontra le trova deluse e inaridite. Pian piano confidenza e sintonia iniziano a farsi strada e Granata immagina una sceneggiatura che richiami quello che lui faceva quando più aveva bisogno di esprimere sentimenti e sensazioni: cantare le canzoni di Mina.
Insieme, quindi, mettono in scena l’ultimo concerto live della cantante alla Bussola di Viareggio il 23 agosto 1978. Le cinque donne, diverse per età e vissuto, hanno a disposizione due canzoni con le quali, attraverso il playback, devono rappresentare la propria storia di dolore e fallimenti e liberare la femminilità repressa.
Granata porta questa esperienza sul palcoscenico in una polifonia a cinque voci, anzi sei compresa la sua, attraversando tappe di scoperta di sé mentre le recluse svelano la propria recondita intimità.
L’attore siciliano diventa Assunta, Vanessa, Gessica, Sonia e Rita, indossando per ciascuna una delle bluse glitterate appese alle aste distribuite sulla scena, poi mima a petto nudo la canzone che la rappresenta in uno sbalorditivo playback mentre sul fondo scorre l’immagine di Mina che canta dal vivo. Ogni donna si esprime nel proprio dialetto, incomprensibile a tratti mentre sono chiare la dinamica emotiva, la disperazione, il disagio esistenziale.
Ciascuna emerge a tutto tondo attraverso il racconto di una vita sciagurata e della scelta sbagliata che l’ha relegata dietro le sbarre, cui il luccichio dell’indumento restituisce dignità e il diritto di esternare i sentimenti. È una sequenza di fotogrammi umani quasi in forma di cunto, che Granata ha adottato nell’apprezzato Antropolaroid che ne ha rivelato la valenza attoriale, misurandosi in tutti i ruoli cambiando timbro vocale e cadenza dialettale. Poi, a petto nudo, torna a essere se stesso, a scarnificare il suo profondo per farne emergere confessioni ed esperienze, esibendo il corpo come mezzo espressivo di una verità disvelata, senza barriere mentali.
La voce che Tindaro cercava si frammenta nelle voci delle detenute che danno corpo ai sogni e che, infine, tornano a convergere nella voce di Mina, Voce della canzone italiana, in un continuo scomporsi e ricomporsi di vite raccontate e sentimenti veicolati dalle canzoni, la cui drammaticità viene amplificata dalla sovrapposizione della voce di Mina col perfetto playback dell’attore (estremamente difficile sulla voce non propria dichiara lui stesso).
“Io vivrò senza te”, “La voce del silenzio”, “Ancora ancora ancora”, “L’importante è finire”…. Sono il fil rouge di vite che volano oltre la limitatezza delle sbarre.
Ritmo e intelligenza creativa danno voce a uno spaccato di oscure biografie con istintiva naturalezza, producendo un narrato lirico e struggente che suscita un po’ di malinconia.
I costumi di paillettes di Aurora Damanti emettono leggeri baluginii, retroilluminati da piccoli fari rivolti verso il pubblico che rendono onirica e intima la scena in penombra (disegno luci di Luigi Biondi).
Nel finale Tindaro Granata rivela che “Vorrei una voce” è arrivato fino a Mina e Massimiliano Pani lo ha chiamato invitandolo a Lugano.
Applausi, applausi, applausi.
Tania Turnaturi