Dal'11 al 22 dicembre 2024 a Roma
Dall’11 al 22 dicembre va in scena al Teatro Ambra Jovinelli lo spettacolo COSE CHE SO ESSERE VERE (Things I Know to Be True) di Andrew Bovell, nella traduzione di Micol Jalla, per la regia di Valerio Binasco. Giuliana De Sio e Valerio Binasco sono i protagonisti di questo toccante, divertente e coraggioso dramma che ruota intorno alla storia di una famiglia e di un matrimonio. Insieme a loro, nel primo allestimento italiano del potente testo di Bovell, Fabrizio Costella, Giovanni Drago, Giordana Faggiano, Stefania Medri. Le scene e le luci sono di Nicolas Bovey, i costumi di Alessio Rosati, il suono di Filippo Conti, video e pittura di Simone Rosset.
Lo spettacolo è coprodotto dal Teatro Stabile Torino – Teatro Nazionale, dal Teatro Stabile di Bolzano e dal Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale, in accordo con Arcadia & Ricono Ltd per gentile concessione di HLA Management Pty Ltd.
Cose che so essere vere ha debuttato in prima nazionale al Teatro Carignano di Torino, il 7 ottobre 2024. In questa stagione sarà in tournée dal 29 ottobre 2024 al 2 febbraio 2025 nelle principali città italiane.
La pièce è ambientata in una villetta nella periferia meridionale di Adelaide, in Australia, dove vivono Bob e Fran Price. Quando Rosie, la più giovane dei loro quattro figli, torna rocambolescamente a casa dopo un breve viaggio in giro per l’Europa è certa di far parte di una famiglia solida e inossidabile: ma all’arrivo della ragazza le crepe che silenziosamente si sono insinuate nei rapporti tra i familiari ribaltano ogni certezza. Il testo è una fotografia complessa e acuta dei meccanismi domestici e matrimoniali, che muta continuamente punto di vista attraverso gli occhi di quattro fratelli che lottano per definire sé stessi, al di là dell’amore e delle aspettative dei genitori. Andrew Bovell (1962), scrittore e drammaturgo australiano pluripremiato, autore di numerosi testi tra cui Speaking in Tongues di cui ha curato l’adattamento cinematografico dal titolo Lantana, e When the Rain Stops Falling, affronta in questo dramma la perdita di fiducia e il potere del passato di plasmare il futuro.
Valerio Binasco scrive nelle sue note: «Cose che so essere vere appare fin dalla prima lettura come un testo di grande impatto emotivo. Bovell penetra senza pudore in tutti i sentimenti che possono dar vita a un “ritratto di famiglia” e cattura la nostra commozione. La sua è una scrittura agile e libera che mostra virtuosisticamente una tecnica molto contemporanea, ma per fortuna non è un autore innamorato della sola tecnica. Si direbbe anzi che la sua idea di teatro contemporaneo non possa fare a meno di qual caro vecchio arnese – ancora tanto amato da me e da gran parte del pubblico – che è il raccontare una storia. Caso abbastanza raro tra gli autori contemporanei, Bovell crede infatti nella trama ancor più di quanto creda nella pura forma. Questa caratteristica dà un sapore piacevolmente retrò ai suoi drammi, che per quanto riguarda il resto – struttura e personaggi – sono invece molto contemporanei.
[…] Cose che so essere vere è una commedia malinconica di persone che volevano fare della propria famiglia un’isola felice, ma hanno edificato il proprio sogno di felicità su verità nascoste, sepolte nelle fondamenta e soffocate nel silenzio, finendo per sbattere contro l’infelicità assoluta».
Valerio Binasco, Direttore artistico del Teatro Stabile di Torino dal 2018, è considerato tra i più autorevoli esponenti della scena teatrale italiana, come testimoniano anche i numerosi premi ricevuti (cinque premi Ubu, due premi dell’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro, due premi Le Maschere del Teatro Italiano, un premio ETI Gli Olimpici del Teatro, un premio Linea d’ombra e un premio Flaiano). Nel corso della sua carriera, dedicata soprattutto alla prosa, ma anche al cinema e all’opera, ha saputo coniugare ricerca e rigore estetico con uno stile registico sempre capace di entrare in relazione con il pubblico: si è distinto, infatti, sia per la rilettura innovativa e originale dei grandi titoli del repertorio, sia per l’attenzione alla drammaturgia contemporanea (di riferimento sono le sue regie di testi di Fosse, Pinter, Ginzburg, McDonagh, Paravidino, McPherson), sia per la formazione dei giovani talenti. Tra le sue regie per il Teatro Stabile di Torino figurano: Sogno d’autunno, Don Giovanni, Amleto, Arlecchino servitore di due padroni, Rumori fuori scena, Il piacere dell’onestà, Le sedie, Sogno di una notte di mezza estate, Ifigenia e Oreste, Dulan la sposa, Sei personaggi in cerca d’autore, La ragazza sul divano.
INIZIARE DALLA FINE
note di regia di Valerio Binasco
Cose che so essere vere (Things I Know to Be True) fin dalla prima lettura appare come un testo di grande impatto emotivo. Bovell penetra senza pudore in tutti i sentimenti che possono dar vita a un “ritratto di famiglia” e cattura la nostra commozione. La sua è una scrittura agile e libera che mostra virtuosisticamente una “tecnica” molto contemporanea, ma per fortuna non è un autore innamorato della sola tecnica. Si direbbe anzi che la sua idea di teatro contemporaneo non possa fare a meno di qual caro vecchio arnese – ancora tanto amato da me e da gran parte del pubblico – che è il raccontare una storia. Caso abbastanza raro tra gli autori contemporanei, Bovell crede infatti nella trama ancor più di quanto creda nella pura forma. Questa caratteristica dà un sapore piacevolmente retrò ai suoi drammi, che per quanto riguarda il resto – struttura e personaggi – sono invece molto contemporanei. Il teatro dei grandi autori vive bene di queste contraddizioni. Anzi, direi che vive di contraddizioni. Ma si diceva della trama: ebbene questo testo si regge su una trama fortissima. Succede di tutto, a tutti, e si va dritto incontro alle emozioni, senza vergogna. Se la storia che racconta è importante, e ci arriva come se fosse esposta in primo piano, tuttavia la formula segreta è la maestria del suo autore nel saper nascondere in secondo piano la propria tecnica compositiva, ovvero quella “musica concreta” che imprime ai dialoghi, al ritmo delle parole veloci, alla compresenza di personaggi, oggetti, elementi atmosferici, situazioni, stati d’animo, primi piani intenzionali, e altri invece rubati o apparentemente casuali. Bovell scrive come se stesse dirigendo un’orchestra. Ogni commedia di un certo valore contiene la sua particolare regola del “gioco teatrale” di cui necessita e nel caso di Cose che so essere vere è il concertato: più riusciremo a dare l’impressione di una jam session improvvisata e apparentemente caotica, come i dialoghi che si svolgono nelle famiglie numerose, meglio sarà. Spero che il pubblico possa cogliere la bellezza di questa complessa partitura, e la sua natura contorta, vagamente “vegetale” – tanto per onorare il tema del giardino, uno dei protagonisti silenziosi del dramma. Questa commedia, vale la pena di ripeterlo, è il ritratto di una famiglia. Cosa sia una famiglia lo sappiamo tutti, o almeno crediamo di saperlo, ma se non analizzo il concetto di famiglia, ma mi limito a pensarla, magari a occhi chiusi, tutto quel che vedo – e che mi riguarda – è caos. È la foto del Big Bang cinque minuti dopo il Big Bang: frammenti dappertutto. Memorie, passato, presente, futuro; stanze, parole, odori, voci, colori, finestre, capelli, urla, canzoni, paura, sollievo… Mi fermo qui perché gli elenchi annoiano, anche se potrei andare avanti per giorni ad aggiungere parole. Se uno volesse lasciarsi trasportare dalle proprie immagini, per ciascuna delle parole messe in elenco, e volesse vedere ciò che esse sono effettivamente state nella sua famiglia, non si annoierebbe per niente, perché quando si vola nell’esplosione del caos, non ci si annoia.
Quando si vuole rappresentare in scena una famiglia, di solito si parte da un certo ordine, da un anti-caos: la cucina, la finestra, le sedie accanto al tavolo. Tutto molto cartesiano, siamo abituati così. Tuttavia, mi sono stufato della messa in scena oggettiva di una casa: una famiglia non è solo una casa, è qualcosa di più. È la percezione soggettiva di una struttura e tutto ciò che è soggettivo è caos, compresenza di tutto, incoerente accumulo di assenza e presenza. Questo punto di vista influisce anche sull’apparato scenografico, che non prevede le abituali distanze tra le cose. Qui il dentro e il fuori sono nello stesso spazio. Sta agli attori (e agli spettatori) trovare una chiave per capire. E l’ambiguità dell’esistenza, quel viaggio illusorio e malinconico che facevo da bambino sulle giostre, questo girare a vuoto che rientra nell’incoerenza del caos si concretizza in un movimento circolare dello spazio scenico. La villetta del testo è una casetta, come la possono disegnare i bambini: tenera e modesta, con un giardino. Il tema del giardino è legato all’idea di paradiso o giardino dell’Eden, quella famosa parola che si abbina sempre (volontariamente o no) all’aggettivo “perduto”. Del resto, la parola paradiso, dal greco paràdeisos, significa giardino e proviene a sua volta da una parola iranica dal suono assai simile, che indica un recinto circolare. La circolarità avrà un certo valore nella nostra rappresentazione. La metafora del giardino come specchio della famiglia la troviamo espressa con forza da Amleto: «Che noia, che vecchiume, che miseria! / E che vergogna! Eccolo il mondo, è questo: / giardino abbandonato dove trionfano / le erbacce più comuni, dove ricca / è la putrefazione. A questo siamo…». Cose che so essere vere è la storia di un Eden che si rivela, ancora una volta, perduto. In putrefazione.
Per i personaggi di questa commedia, l’idea di paradiso è legata alla casa, al giardino, all’infanzia e alla famiglia, e la casa in particolare è per loro la cosa più importante e necessaria. Lo rivela fin dai primi minuti il personaggio della figlia più piccola, Rosie: mentre è in viaggio in Europa, invece di divertirsi si strugge per la nostalgia di casa, e ha il cuore spezzato anche prima che un ragazzaccio spagnolo glielo frantumi per amore. Il cuore di Rosie è spezzato in partenza, a causa della nostalgia: per lei casa vuol dire ancora Eden.
Perfino l’albero della conoscenza è presente, qui. Fran, la madre e moglie, ci sbatte la testa contro, poiché ha ceduto alla tentazione di quel delizioso serpente demoniaco che è Eros. Il giardino è un paradiso, a patto che vi sia amore, ma stiamo parlando di quel tipo di amore senza eros, che chiede dedizione, sacrificio, dolcezza, disponibilità. Per capire questa famiglia bisogna tenere a mente la contrapposizione tra Eros (male) e Amore (bene). Fran ha metaforicamente preso a testate l’albero di Eva, si è fatta abbastanza male per sacrificarsi alla famiglia, spingendo Eros nel buio dei segreti inconfessabili. Da uno sforzo del genere se ne esce distrutti, traumatizzati. «Così ho deciso: mi strapperò questo amore dal cuore, definitivamente», dice Maša nel Gabbiano. E noi che la ascoltiamo capiamo subito che non ci riuscirà mai, perché per strappar via l’amore bisogna strappar via il cuore stesso. Fran sopravvive a questo dolore, ma porta i segni di quella battaglia, una battaglia che non si vince mai del tutto. La sua infelicità di sopravvissuta ha fatto ammalare di infelicità tutti quelli per cui si era sacrificata.
Il testo comincia dalla fine. È un piccolo escamotage per catturare l’attenzione e creare un po’ di suspense, ed è anche una tecnica narrativa usata sovente nel cinema. Sembrerebbe solo una questione di montaggio, ma nel nostro caso ci regala qualcosa di più, perché se uno spettacolo comincia dalla fine, il tempo presente emotivo è quello della fine. Questo cambia qualcosa nella recitazione. È quella condizione che io chiamo “nostalgia del presente”. L’autore fa iniziare tutto con una telefonata che annuncia una sventura. Una morte. È un colpo di scena fin dall’alzata del sipario, e noi vedremo tutto il resto dello spettacolo sotto l’influsso di quella telefonata. Poi comincia una sorta di flashback, durante il quale avremo il tempo di vedere come ciascuno dei componenti di questa famiglia, così serena e amorevole, abbia problemi molto seri. Ci troviamo di fronte a un film fatto a teatro, con una serie di piano sequenza articolati da dialoghi che simulano perfettamente una sorta di naturalismo corale. In estrema sintesi, posso dire che questa è la storia di un nucleo familiare che si è dotato di tutti gli strumenti e di tutte le strategie in circolazione per mantenersi eternamente normale e felice. Ma la crudele intenzione dell’autore è quella di andare a frugare sotto lo scudo che protegge le apparenze, e farci vedere come in questo nucleo ci sia ben poca normalità e ancor meno felicità.
La centralità della figura di Fran è evidente fin dall’inizio: è un’idrovora che, per troppo amore (e per paura di averne troppo poco), risucchia tutti in un gorgo di controllo, sperando di impedire a chiunque di essere infelice o di cambiare modo di vivere. Resistere e sacrificarsi, questa è la sua legge d’amore, una lotta disperata contro l’infelicità che finisce per destinare tutti all’infelicità. Se Fran è la protagonista, al suo opposto c’è Rosie, e il suo ruolo è quello del medium: inizia questa storia parlando al pubblico, ed è da lei che nasce il dramma. Rosie ci fa vedere fin dal primo momento il suo amore incondizionato per i familiari, noi ci identifichiamo con lei, e capiamo ben presto che sarà destinata a soffrire per questo. Del resto gli autori contemporanei, in grande maggioranza, sono crudeli: hanno sempre bisogno di un innocente da torturare un po’. Questa commedia è una sorta di percorso, in cui si comincia dalla fine, quando è già tutto rotto, e poi assistiamo a una sorta di via crucis le cui tappe ci conducono alle cause del disastro, e all’emergere implacabile di verità nascoste che non potevano restare nascoste per sempre. Cose che so essere vere è una commedia malinconica di persone che volevano fare della propria famiglia un’isola felice, ma hanno edificato il proprio sogno di felicità su verità nascoste, sepolte nelle fondamenta e soffocate nel silenzio, finendo per sbattere contro l’infelicità assoluta. Più si crede nella felicità, più si soffre, sembra dire l’autore. Rosie è quella che ci crede più di tutti. E non sarà un caso se il simbolo della casa sono le rose di papà. Stiamo raccontando la storia di una casa distrutta. Oggi, molti mesi prima delle prove, la sola che so essere vera, è questa. Non so dove porterà, ma cominciamo da qui.
Luglio 2024