Il pueblo è un’abitazione, tipica degli indigeni americani, in cui convive un’intera comunità. Come un paese a porte aperte, in cui ognuno conosce vita e miracoli dei suoi vicini. Una convivenza assai diversa da quella a cui siamo abituati, circondati da mura scarsamente intervallate da finestre. Basta scostare un po’ la tenda, però, per scoprire nuove storie che prendono vita a due passi da noi. Nell’appartamento dirimpetto, nel prefabbricato della guardia giurata fuori dal supermercato, nel bar con le slot machine, persone che condividono il nostro tempo e i nostri spazi lavorano, si innamorano, muoiono. E noi non ne sappiamo nulla. La vocazione artistica di Ascanio Celestini lo porta a scostare le tende di quanti più appartamenti lo possono ospitare, per trasformare le comparse della società in protagonisti. Pueblo, presentato il mese scorso al RomaEuropa Festival, continua il racconto delle periferie già iniziato nel 2015 con Laika. Sono i primi due capitoli di una trilogia senza ordine cronologico, storie parallele e contemporanee che inquadrano la condizione umana, la mettono a fuoco. Forse non sono storie vere, ma poco importa: la rivoluzione di Pueblo è raccontare i margini della società, dar loro attenzione. La periferia in fondo è solo ciò che sta intorno al centro e, come il bordo della pizza, non è considerato da molti. Chi ha la premura di soffermarsi a osservarla, può scoprire però un mondo di regine senza gambe che siedono in cassa, di barbone innamorate e di magazzinieri che perdono contro la statistica. Il loro passato, la loro quotidianità fanno parte della condizione umana tanto quanto i nostri, anche se quasi noi non li vediamo quando paghiamo la spesa e ci danno il buongiorno, quando usciamo dal supermercato o quando, entrando in un bar, sentiamo in sottofondo il tic e tac dei gettoni che si perdono dentro la macchinetta. A volte parliamo di loro, ma non li conosciamo, li chiamiamo barboni, immigrati, zingari, ma non sappiamo il loro nome e loro non ce lo dicono. Celestini scrive una drammaturgia del marginale quotidiano partendo – come lui stesso ha detto – da un punto di vista «che non è artistico ma umano». Non snaturando, ma illuminando storie che stavano al buio e che uno, umano come noi e come loro, ha trovato. Se nel primo capitolo della trilogia a parlare era un Gesù che proclamava una buona novella di Dio, non così buona e certamente senza l’approvazione di Dio, in Pueblo è un uomo di cui non sappiamo nulla, un uomo qualsiasi. Come Laika, anche questo nuovo capitolo non è un monologo, ma un dialogo tra un narratore e un ascoltatore adulto con la voce da bambino, che risponde al nome di Pietro (Gianluca Casadei). Pietro siamo un po’ tutti noi, che ingenuamente prima diffidiamo e poi ci appassioniamo alle storie inventate, che diventano vere nel momento in cui qualcuno ce le ha dette. Lo diventano perché ci accorgiamo che sono ben più vere di quelle che sottintendiamo quando non ci curiamo dei protagonisti. “Domenica beve cappuccino decaffeinato e ha delle malattie infettive” non è una storia che sta in piedi, non ci crederebbe neanche un bambino. La verità è che Domenica ha imparato a rubare ai fessi e che ama la pizza con la mortadella. Questa sì che regge, che è vera. Ed è a questa che dobbiamo pensare, prima di dire qualcosa su Domenica.