Abbiamo incontrato Andrea Adriatico, fondatore e direttore artistico di Teatri di Vita (Bologna), impegnato in questi giorni con la regia del suo ultimo spettacolo, “A Porte Chiuse – Dentro l’anima che cuoce”.
Il lavoro è andato in scena sul palco del Florian Espace dal 10 al 12 novembre, all’interno della stagione 2017-18 di Florian Metateatro “Teatro d’Autore ed altri linguaggi” per il ciclo “L’Europa è qui”.
Lo spettacolo di Adriatico riprende uno dei testi più importanti della drammaturgia contemporanea (A Porte Chiuse di Jean Paul Sarte), ma ne propone una lettura interpretativa ed in buona misura una riscrittura.
***
Il tuo spettacolo presenta un sottotitolo, “Dentro l’anima che cuoce”. Che funzione ha questa aggiunta e che significato intendono trasmettere queste parole?
È un riferimento ad una battuta del testo di Sartre, pronunciata da una delle donne: “questo caldo mi cuoce l’anima”. È una delle questioni più intriganti di Sartre e della sua contemporaneità, la crisi dell’anima. Che è un po’ una chiave per leggere il nostro tempo credo.
Dopo aver messo in scena autori come Elfriede Jelinek e Tondelli, sei tornato ad un nome forte della drammaturgia e del pensiero critico come Sartre. Qual è la linea editoriale che unisce questa scelta al tuo lavoro precedente?
Non scelgo gli autori che metto in scena pensandoci troppo. Sono vorace, mi piacerebbe mettere in scena tutto. Perché in fondo ad essere messo in scena è il pensiero, non solo la parola scritta. E il pensiero, piaccia o no, è mio. Pensare che a Sartre arrivai da piccolo leggendo un fumetto di Diabolik. Le Giussani avevano preso ispirazione da questo testo e lo tradussero a modo loro e io inciampai in questo autore.
Un dramma come “A Porte Chiuse” cosa apporta di nuovo e di diverso rispetto al tuo percorso precedente?
Mi ha portato a chiudere un momento della mia vita che è stato un po’ un inferno. Ecco, il tema vero è l’idea dell’inferno. Che cos’è l’inferno? Cosa significa precipitarci dentro? E il mio inferno cos’è? Posso dire di essere partito da lì. E dalla claustrofobia provata.
“A porte chiuse” è un progetto importante per me anche da un punto di vista produttivo. Si sono mescolate energie, è arrivata Teresa Ludovico, dei Teatri di Bari, con cui non avevo mai lavorato. Siamo stati sostenuti da Akròama, quindi è un lavoro con un po’ di mare cagliaritano dentro.
Oltre alla regia, hai operato un lavoro di adattamento drammaturgico, in collaborazione con Stefano Casi. Che tipo di lavoro avete fatto sul testo?
Semplicemente l’attualizzazione delle ragioni “infernali” proposte da Sartre. Ciò che suonava infernale nel dopoguerra oggi è lontano ricordo.
È la prima volta che ti capita di esercitare una impronta autorale così forte in un tuo spettacolo, cioè di intervenire sul testo oltre che sull’estetica dello spettacolo tramite scelte di regia?
No, è successo spesso. Penso già dal mio “Oplà. noi viviamo” al festival di Santarcangelo nel 1992. Usai Ernst Toller per parlare della strage di Capaci. Avevo 26 anni, ma quell’incoscienza mi è rimasta tutta.
Spesso parlando di classici si sottolinea l’attualità che questi testi conservano, pur essendo stati scritti secoli o millenni fa. Nel caso di “A porte chiuse”, il testo di Sartre necessitava di un aggiustamento, oppure si porgeva meglio d’altri verso il presente?
L’idea di Sartre è fortissima. L’inferno sulla terra. È massimamente contemporaneo e lo sarà sempre.
In scena puoi contare su di una squadra di attori molto versatili ed affiatati, come Francesca Mazza, Teresa Ludovico, Gianluca Enria e Leonardo Bianconi. Come si è formato questo cast?
Con tutti, a parte Teresa Ludovico, avevo già lavorato. Li ho reclusi per un paio di settimane, senza possibilità di fuggire. O ti ami o non vai avanti. Si sono amati. E io loro, gli sono molto grato. Questo lavoro, dei miei, è uno dei meno immediati. Sembra facile, in realtà è molto complesso da interpretare.
Rispetto al tuo spettacolo precedente, “Biglietti da camere separate”, in cui lavoravi con due attori giovani, per “A Porte Chiuse” disponi di una formazione di attori espertissimi per i ruoli principali. Come cambia il lavoro del regista? Si instaura forse una regia più collaborativa, più dialogica e meno verticale?
No, io ascolto tutti, indipendentemente dai loro curriculum o anzianità. E alla fine decido io ciò di cui ho bisogno. È il modo migliore per non tradire un attore, prendersi la responsabilità delle scelte. Giuste o sbagliate. È il teatro di regia.
Un aspetto che colpisce è sicuramente la scenografia, collocata in alto rispetto alla base fornita dal palco. Quali motivazioni ti hanno spinto a questa scelta e quale effetto intendi produrre?
Sartre immaginava per il suo inferno una stanza d’epoca in stile Secondo Impero con tante porte. Io le porte le ho proprio tolte. La claustrofobia è il mio inferno. L’impossibilità di prendere aria. Poca altezza e un letto come superficie.
Osservando i tuoi diversi lavori, si nota una attenzione particolare alla progettazione dello spazio scenico. L’altro elemento distintivo del tuo teatro sembra essere quello della proposta drammaturgica, andando a scegliere autori “impegnativi”. Mettendo assieme questi due aspetti, è come se le tue regie volessero predisporre un luogo in cui dei testi importanti possano parlare, mantenendo il protagonismo della drammaturgia. Sei d’accordo con questa analisi?
Sì, come con tutte le analisi che arrivano da chi guarda. Non ho alcuna intenzione di pilotare lo sguardo. La ricchezza, per me, è quella di poter affidare agli sguardi e ai pensieri altrui il mio bisogno di teatro. Mi piace senz’altro progettare spazio per far vivere le storie che racconto, o anche per far vivere le persone. Se lo spazio è giusto tutto è più semplice.
Quanto agli autori, se sono “impegnativi” è solo perché oramai siamo abituati a considerare l’impegno un delitto. Sono della vecchia guardia, l’impegno per me è la vita.
“A porte chiuse – Dentro l’anima che cuoce” è uno spettacolo che fa parte del “Progetto Atlante”. Di cosa si tratta?
Di un insieme di spettacoli che si occupano di sopportare il peso del mondo in questo momento. Un peso atroce.
Teatri di Vita è membro del Premio Scenario, il concorso ma anche lo straordinario osservatorio sul panorama emergente del teatro italiano. Qual è il tuo giudizio sullo stato di salute e vitalità del sistema teatrale italiano?
Bello, fatto di tantissimi talenti. Ma spesso incattivito dalla mancanza di opportunità reali. È un altro dei pesi di Atlante.