Nei giorni 3 e 4 marzo 2018 presso il Nuovo Teatro San Paolo di Roma si è svolta la fase conclusiva della seconda edizione del Concorso nazionale di Nuova Drammaturgia ‘Belli Corti’, rassegna che intende valorizzare nuovi testi teatrali e i rispettivi autori. A seguito di un bando emesso dalla Direzione artistica del Teatro, erano stati selezionati 318 corti teatrali. I copioni dovevano avere i requisiti di originalità e innovazione e promuovere una degna sperimentazione creativa. Nei turni precedenti erano stati rappresentati 20 testi meritevoli di segnalazione, di cui 6 giunti all’atto conclusivo del 3 marzo. Una giuria composta da Luigi di Majo, Marcello Isidori, Pierlorenzo Pisano, Massimiliano Mecca, Edoardo Borzi, Renato Massaccesi, Andrea Giovalè e dal sottoscritto ha decretato ‘miglior corto’ “OPUS la app che ti dice chi sei!” di Michele Di Vito, vincitore quindi della seconda edizione del concorso “Belli corti 2018”. Il premio del pubblico è andato a “Il sacro luogo del concepimento” di Andrea Ozza. La sera del 4 marzo 2018 i 18 registi che si sono avvicendati sul palco nelle serate precedenti, hanno votato per assegnare i restanti premi a Emanuele Boscioni, ‘miglior attore’(“La Critica” di Davide Linari), a Martina Barboni, ‘migliore attrice’ (“Comizi” di Giuseppe Vincenzi) e Federico De Sivo,’ miglior regista’ (“Io ed io” di Davide Linari).
C’è veramente urgenza di progetti che alimentino il teatro contemporaneo di qualità e l’iniziativa del nuovo Teatro San Paolo ha riempito un deplorevole vuoto perché questo concorso rappresenta un unicum nel panorama della drammaturgia italiana. Il bilancio della kermesse è decisamente incoraggiante, il livello è buono e il seme non tarderà a maturare se si continuerà a credere nella scommessa iniziale.
Le 6 short story della finale del 3 marzo 2018.
A questo link potete vedere il video: https://www.facebook.com/nuovotsp/videos/1937117709648984/
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SINOSSI
1) ‘La verità’ di Andrea Taffi, regia Riccardo Benforti, con Daniele Flammini e Antonello Gualano.
Apre la serata ‘La verità’ di Andrea Taffi, uno scorcio inquietante e ad alta tensione sulle ambigue trame che si insinuano negli arditi tentativi di costruire una realtà addomesticata, alterata a dismisura, favorita da teorizzazioni torbide e compiacenti. La scena si svolge in uno studio legale, la scenografia è spoglia ed essenziale. È il confronto aspro ed incalzante tra un avvocato penalista e il suo sedicente e sconosciuto assistito. È il dialogo inconciliabile tra uno scaltro ed ipocrita uomo di legge che smarrisce gradualmente la propria sicumera, e un individuo impavido e spietato che trascende una inconcludente dialettica per svelare con disarmante cinismo prima un omicidio e poi l’ancor più folle proposito. ‘La verità’ è una metafora del paradosso sull’omologazione fra colpevoli e innocenti e sulla composita, perversa dinamica processuale generati entrambi da squallidi orientamenti di pensiero, da criteri di opportunismo in grado di rovesciare le sorti delle parti. Manipolando la verità, viene mortificato l’interesse primario, il fare piena luce su fatti realmente accaduti, in nome di una rappresentazione fantasiosa, amorale ed aberrante che stravolga l’ordine delle cose, salvi l’imputato e deprima in un colpo solo diritto e giustizia. Appropriandosi delle tesi del suo ‘avversario’, il cliente reo confesso ne demolirà gli assunti, lo metterà alle strette per poi inchiodarlo di fronte alle insanabili incongruenze, alle mutate necessità e ad un copione che non aveva previsto. Il tutto in un crescendo di toni drammaticamente esasperati di grande effetto. Il testo di Taffi, avvocato anch’egli, non è affatto banale, evoca il teatro dell’assurdo, scandaglia arditamente le cavità oscure dell’animo umano e la sua controversa, tormentata natura. L’autore affronta il tema dell’incomunicabilità, del disordine delle relazioni personali e delle paure represse e lo fa partendo da una apparente normalità per approdare ad una dimensione estrema, opprimente, egregiamente scandita da ritmi e tempi che sottolineano l’angosciante nonsense e valorizzano il convulso, minaccioso finale. A mio parere, l’opera non è stata adeguatamente considerata in sede di verdetto, per restare in tema, dai convenuti.
2) ‘Il sacro luogo del concepimento’ di Andrea Ozza, regia Stefania Cenciarelli, con Francesco Casella, Matteo Nazzarri e Marialida Testa.
‘Il sacro luogo del concepimento’ di Andrea Ozza scoperchia in chiave ironica quell’intreccio di fanatica superstizione e credenze popolari che la longa manus di padri autoritari e tirannici perpetua post mortem influenzando la volontà di figli indolenti e sottomessi. Si tratta nella fattispecie di una ingombrante eredità, una clausola medievale che sa di estorsione a corollario e ratifica di un testamento olografo di cui i destinatari, sotto scacco, stentano a sbarazzarsi per un malinteso senso del rispetto che si deve alla memoria del defunto. Andrea e Carla sono due fratelli in libertà condizionata che, al momento della stipula della partizione dei beni, dovranno dar conto al padre del luogo esatto del concepimento della stirpe ‘perché San Giuliano di Canosa, di cui il de cuius è fervente devoto, assevera che il luogo del concepimento influenza il sangue ed il futuro dei discendenti. Chi viene concepito in un campo di grano, sarà contadino a vita, chi in una stalla sarà pastore a vita, chi in un letto adultero sarà un malavitoso e chi viene concepito in un letto immacolato, con le lenzuola bianche e un materasso pieno di risparmi, avrà prosperità e serenità’. Gli esiti del confronto a distanza saranno in controtendenza, esilaranti e grotteschi, imprevedibili e ‘detonanti’ al punto da far rivoltare nella tomba l’onnivoro genitore. Un testo piacevole e leggero che tratta amabilmente un fenomeno arcaico, intriso di riti propiziatori e scaramantici, un pezzo di storia oscura e di dubbio folclore che appartiene a giusto titolo alle nostre tradizioni. Il voto degli spettatori presenti in sala promuove l’opera di Andrea Ozza che vince il ‘premio del pubblico’.
3) ‘Il vuoto dietro gli occhi’ di Michele Oliva, regia Paolo D’Alessandro, con Franc Kroburi e Nicola Miliani.
La terza short story in programmazione è ‘Il vuoto dietro gli occhi’ di Michele Oliva. L’ambientazione è quella dello studio di uno psicoterapeuta: una stanza con pochi arredi, una scrivania, una poltrona, l’immagine del padre della psicanalisi alla parete e un emblematico busto bianco in gesso privo di arti e testa. È il racconto di una seduta psicoanalitica convenzionale, quasi scolastica, se si prescinde da alcuni segnali di intermittente nevrosi di cui è preda uno dei due interlocutori. Il dettaglio sconvolgerà il ‘normale’ ordine di un colloquio fiacco, dall’aria quasi annoiata, giunto ormai al termine. Il paziente, disilluso ma ormai consapevole della vis amara che ha la solitudine in quanto stato naturale della condizione umana, decide di interrompere il percorso di ricostruzione interiore. Il vuoto dietro agli occhi, la cecità che rimuove anziché recuperare un passato tormentato, gli offrirà la motivazione per affrontare una degna esistenza. Ma la tensione accumulata gioca brutti scherzi all’analista. La sorpresa è in agguato e, anziché risolvere un caso, ne apre un altro ben più grave. Il concetto di normalità diviene labile ed impervio, come un misterioso aforisma ancora da codificare. Il ragazzo viene investito dalla reazione inaudita, sguaiata dell’energumeno che avrebbe dovuto proteggerlo ed invece vanifica la seduta e disonora il proprio ruolo. La scelta del giovane è inaspettata ancorché ponderata e ha l’impudenza di essere irreversibile. Diventerà traumatica e non sarà ammissibile per il terapeuta che mortificherà il tentativo del suo assistito, precipitato di schianto in quel turbine di persistente fragilità da cui credeva di essersi appena liberato. La pièce solleva dubbi e interrogativi allarmanti su quel complesso stato di alienazione, latente e subdolo, che priva l’individuo di ogni senso di identità ed appartenenza. Mette a nudo il malessere diffuso del doppio irrisolto, di quel ‘perturbante’ teorizzato dallo stesso Freud che può lacerare ogni mente e non fa sconti a nessuno. Il contrasto fra la calma piatta che segna una introspezione quasi da manuale e la inarrestabile tempesta di una rancorosa, sbeffeggiante violenza che frantuma gli argini consentiti, è sferzante e di indubbia efficacia. L’autore, al di là di qualche innocua banalizzazione, riesce nell’intento provocatorio di stupire divertendo, per indurre poi ad arguta riflessione. L’effetto è grottesco e salutare. L’esplorazione di se stessi, come il riaffiorare di ricordi rimossi, sempre dolorosa , può essere vivificante. Ma attenzione agli improvvisatori di professione! Comunque sia, il buon esito non è sempre garantito…e gli scenari possono essere da incubo.
4) ‘OPUS la App che ti dice chi sei!’ di Michele Di Vito, regia Martina Barboni, con Simone Baldovini, Leonardo Cappelli, Chiara Ciolfi e Marta Maione.
Le note di ‘The pink panther Theme’ di Henri Mancini introducono ‘OPUS la App che ti dice chi sei!’, short story di Michele De Vito che narra le concitate fasi di uno strampalato sequestro messo in atto da tre sprovveduti studenti un po’ codardi all’interno della facoltà di Informatica. Nelle intenzioni dello stratega del gruppo, aspirante regista fuori corso, vuole essere un sequestro ‘politico autogestito e rivoluzionario’ ma solo perché l’ardimentoso condottiero ha le idee molto confuse su almeno cinquant’anni di storia recente. Il blitz e l’inesorabile processo che ne segue avvengono ai danni di una compagna di studi di ingegneria che si rivelerà poco disponibile al patteggiamento, molto determinata e soprattutto infinitamente più abile dei suoi malcapitati aguzzini. Il nemico quindi non sarà lo Stato borghese ma una esuberante fanciulla che destabilizzerà le menti già provate degli imbranati inquisitori. Si configura come una farsa ammiccante e spassosa, che fa il verso ad atteggiamenti e slogan da movimento studentesco di un’epoca fa. Il sistema che viene contestato non è l’establishment ma quello che ospita l’applicazione incriminata, questa sì rivoluzionaria, ma per apparecchi cellulari. Un programma ancora sperimentale basato su algoritmi che incrociano dati sensibili e in grado di indovinare le caratteristiche e il destino, se pure approssimativo, del profilo esaminato. Una truffa, secondo la pubblica accusa, che si propone di estorcere a fini illeciti le identità dei destinatari che nel frattempo spariscono dalla circolazione senza lasciare traccia, di cui uno avrebbe tentato addirittura il suicidio. I tre compari fenomeni si incartano alla prima mossa e vengono smascherati per poi essere ridicolizzati dalla imperturbabile imputata sottoposta a video processo. La bufala si ritorce contro gli ideatori della messinscena che, andati per menare, verranno sonoramente bastonati con il beneficio del ravvedimento. Le dimostrazioni di Marta, ideatrice del programma, proveranno l’utilità di un prodotto che può semplificare la vita ma anche complicarla. Daniele è il capobranco che sarà travolto da una decisione scellerata che decreterà il trionfo della vittima sacrificale con l’inversione della confessione ma provocherà anche la riabilitazione del suo accusatore. L’opera di Michele De Vito è ben strutturata e si avvale di un tessuto narrativo e di una trama movimentata ed articolata che si distingue per consistenza, originalità, ritmi serrati. Prodotto da una idea bizzarra all’apparenza frivola ed inverosimile, il racconto suscita interesse ed è ricco di sviluppi e artifizi pregevoli che gli conferiscono indubbia vitalità ed espressività scenica, quella che Dave Brandl chiama stage-ability. Veramente bravi i giovanissimi attori. Il finale è scoppiettante, irresistibile e l’esternazione di Marta, inopportuna, a voler ribadire, sotto forma di comunicato, una verità che l’opera aveva egregiamente espresso, conclude il dramma comico, per usare un ossimoro calzante, che sdrammatizza il dramma. È questa l’opera che ha messo d’accordo pressoché all’unanimità gli otto giurati della fase finale. ‘OPUS la App che ti dice chi sei!’ di Michele De Vito vince quindi il premio come ‘Miglior corto’ della seconda edizione del concorso di Nuova Drammaturgia ‘Belli Corti 2018’.
5) ‘Io ed io’ di Davide Linari, regia Federico de Sivo , con Daniele Barbiero e Pietro Molaioni.
Il quinto corto proposto è ‘Io ed io’ di Davide Linari, riflessione semiseria su quell’io più o meno inconscio che bonariamente interroga la parte di noi meno nobile, l’irrazionale in preda a deliri quotidiani, a frenesie scomposte, a eccessi che sottendono insoddisfazione e nascondono fallimenti annunciati. È l’anima speculare ma inascoltata e saggia che in questa pièce ha il volto tenero e la voce rassicurante di un bambino in vena di affabulazione, quel richiamo conflittuale che ci attrae e respingiamo con sdegno e rifiutiamo di accettare perché non possiamo dominare. Il mattino ha l’oro in bocca e l’intimità del bagno domestico, familiare e complice, favorisce pensieri in libera uscita ma il responso dell’immagine allo specchio è inesorabile. Le paure attanagliano l’uomo e preferiamo scorciatoie meno impegnative e fini a se stesse anziché provare il disonore cocente ma inebriante della sconfitta. Il timore della morte ci sovrasta perché in realtà si ha paura di affrontare la vita e allora siamo preda di fantasmi: la solitudine, il vuoto esistenziale, i giudizi stereotipati sugli altri per avvalorare la migliore opinione di se stessi, le finte giustificazioni per ridurre scomode responsabilità. Rianimare il fanciullino che abbiamo frettolosamente ingabbiato per ripartire con rinnovato slancio ed essere fedeli a se stessi, artefici unici del nostro destino: è questa la chiave di volta, il solo atto di fede che conta. E il brano di Fabrizio de André ‘Il giudice’ che introduce e chiude la pièce ce lo rammenta. Indovinata e coraggiosa la scelta di affidare l’ altra metà dell’io ad un bambino, per di più straordinario, scelta che, per ammissione dello stesso regista, si è resa necessaria a causa dell’impossibilità di rinvenire un sosia del protagonista. È questo, io credo, il valore aggiunto del racconto perché l’infanzia è la stagione irripetibile e spesso rimpianta, in cui la sincerità e il candido entusiasmo non hanno ancora sperimentato la malizia e gli schematismi dell’età adulta e i suoi nefasti condizionamenti. Il bimbo scruta l’orizzonte del mondo dal proprio osservatorio libero ed esclusivo prima che la naturale virtù venga travolta per sempre dal pragmatismo di convenzioni che ne violeranno l’innocenza e lo stupore superandoli inesorabilmente. Strameritato il premio per la ‘migliore regia’ assegnato da 18 registi a Federico De Sivo che ha diretto ‘Io ed io’ di Davide Linari.
6) ‘Comizi’ di Giuseppe Vincenzi, regia Giorgia Valeri, con Martina Barboni, Daniele Di Martino e Agnese Giovanardi.
‘Comizi’ di Giuseppe Vincenzi è l’ultimo testo in gara. È la divertente parodia di un aspirante onorevole dei tempi nostri, un avventuriero della politica che tenta la scalata proponendo la solita candidatura alternativa alla corrotta classe dominante e si sottrae ai problemi adottando un lessico farcito di neologismi di fantasia incomprensibile ai più. In una tribuna elettorale di pura propaganda illustra le sue posizioni intransigenti e aliene da inciuci ed aggregazioni del passato e risponde altezzosamente alla disorientata intervistatrice che non ottiene risposte. Improvvisando un esilarante siparietto, questo Cetto Laqualunque dirozzato ed evoluto in versione teatrale si scaglia contro anonimi avversari accomunati dal peggior background culturale, alterna invettive a proclami da ‘nuovo che avanza’ con modi affettati di esaltazione mistica. Rivendica con enfasi l’onestà di pensiero e la trasparenza di un linguaggio, ahimè oscuro e deformato, che a suo dire apparterrebbe al popolo. Dopo aver sproloquiato come un fiume in piena, si lamenta infine con la giornalista in questione per essere stato censurato. Insomma, il trionfo dell’insolenza e del nulla. La scena che segue vede il nostro nello studio privato mentre con la sua collaboratrice allestisce le prove di conferenza stampa che annuncerà la nascita di un nuovo partito. Dovrà essere aperto a tutti, europeista e non, accogliente e non, garantista e non, un‘ammucchiata di coerenza e del suo contrario, prestando attenzione a non scontentare gli opposti, superare il criterio degli schieramenti e incamerare il consenso più ampio possibile. Non resta che dargli un nome e il gioco è fatto. Per dargli anche un’anima, c’è sempre tempo. È l’uovo di Colombo. ‘Comizi’ di Giuseppe Vincenzi fornisce un quadro surreale, efficace e sarcastico, assolutamente aderente alla realtà, di un Paese sgomento e smarrito, in perenne campagna elettorale, preda di imbonitori spregiudicati prestati alla politica a fini personali. Convincenti e disinvolti gli attori Daniele Di Martino (il politico), Agnese Giovanardi (l’intervistatrice) e Martina Barboni (la complice) che vince il premio come ‘migliore attrice’ e fa il bis di consensi, dopo aver guidato il sorprendente cast di ‘OPUS la app che ti dice chi sei!’.