Definire “caratteristico” il Don Giovanni di Valerio Binasco, dopo le tante parole che sarebbero necessarie per motivare questa aggettivazione, sarebbe comunque decisamente riduttivo. Così come definirlo un Don Giovanni “pop” rischierebbe di sminuirlo in maniera eccessiva – nonostante cominci con un prologo scritto (proiettato) su un sipario trasparente a mo’ di fumetto, sotto l’accompagnamento delle inconfondibili corde dell’intro di Stairway to Heaven; la “caratteristica” fama di Don Giovanni il libertino, il donnaiolo, l’uomo privo di scrupoli di Molière entra in gioco contraddicendo il tono aulico e religioso della “scalinata verso il paradiso” dei Led Zeppelin. La scalinata che Don Giovanni (qui interpretata da Gianluca Gobbi), l’uomo senza Dio, è genuinamente e ingenuamente convinto di salire.
La Soluzione di Binasco al ricercato e sfuggente compromesso tra un testo classico e un contesto riconoscibile – più eclettico che moderno o contemporaneo – è insieme semplice e geniale, risolvendosi nella sperimentazione scenica e linguistica di taglio ora cinematografico, ora letterario, ora totalmente innovativo.
Circondato da un cast tecnicamente impeccabile, al centro di questo contesto quasi ineffabile c’è il Don Giovanni/Gobbi, o meglio la sua ombra: è infatti un personaggio vacuo e vuoto, appiattito dalla sua incapacità di rispettare chi riceve il suo amore distorto, schiavo della sua infame caratterizzazione. L’interpretazione di Gobbi non può dunque limitarsi a “caratterizzare” lo stereotipo del grande amatore, latin-lover, sciupa femmine misogino che dir si voglia; viceversa, il suo personaggio viene abilmente descritto e vissuto come un prodotto degli stimoli esterni, animale portato alla salivazione dalla presenza del cibo, mostrandosi irrimediabilmente infantile nel suo pretendere di ottenere l’oggetto dei suoi incontenibili desideri. Nella rilettura operata da Binasco, il Don Giovanni “senza Dio” diventa un Don Giovanni “senza Io”, per sempre intrappolato nella sua condizione da sindrome di Peter Pan che gli impedisce di guardare oltre i bisogni e desideri che gli sono propri.
Volontà. Azione. Possesso.
Il famigerato personaggio in tal modo psicanalizzato smette di apparire diabolico, solo per sembrare più umano, perfino più umano di quegli umani stereotipati (ovvero “normali” o presunti tali, conformisti, caratterizzati a tratti netti) che abitano il suo stesso palcoscenico. Ciò non fa del Don Giovanni una vittima di se stesso; né Binasco deve aver mai inteso dipingerne il personaggio sotto la luce del martire, sottraendolo all’aura di negatività che lo avvolge classicamente. Un eroe tragico, piuttosto, colpevole di un carattere turbolento e irrequieto.
Un carattere tratto dalla classicità di Molière che tanto facilmente può essere riconosciuto nelle persone di oggi, moderne, contemporanee o presunte tali.
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Don Giovanni
di Molière
regia di Valerio Binasco
con Vittorio Camarota, Fabrizio Contri, Marta Cortellazzo Wiel, Lucio De Francesco, Giordana Faggiano, Elena Gigliotti, Gianluca Gobbi, Nicola Pannelli, Fulvio Pepe, Sergio Romano
scenografie di Guido Fiorato
luci di Pasquale Mari
costumi Sandra Cardini
musiche di Arturo Annecchino
produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale