La sagoma dello chef (stellato o semplicemente mediatico) è divenuta innegabilmente una presenza famigliare alla nostra percezione, un appuntamento fisso delle nostre giornate celebrato sul rettangolo imprescindibile dei nostri televisori o dei nostri smartphone. Con il suo Arturo, Stefano Angelucci Marino sembra dunque voler confezionare un personaggio ed uno spettacolo ritagliato sull’oggi, eppure non è così. Non è così perché si tratta di un lavoro storico dell’attore e regista abruzzese, qui presentato nella forma di un sequel ambientato in Sud America. Se dunque il primo Arturo sognava di andare nella sfavillante Los Angeles per sfondare come chef, qui un Arturo ben più disincantato decide di riparare in Argentina, alla ricerca forse di un mercato del lavoro meno spietato, o forse di un ultimo angolo di mondo capace ancora di accogliere il sogno di un ragazzo di provincia. Come dire, dall’american dream al sogno sudamericano.
C’è in effetti più del mero intrattenimento da one-man-show nel progetto di Angelucci Marino, in cui le dimensioni di micro e macro e si incrociano ripetutamente: globalizzazione e territorialità, letteratura e cabaret, spettacolo ed emigrazione. Ma soprattutto, la veste della comicità viene usata per raccontare e dissimulare la parabola della finitezza umana che si sublima all’inseguimento donchisciottesco dell’utopia.
Arturo è un vanitoso, ama parlare di sé dilungandosi, fermandosi solo per osservare le reazioni negli occhi di chi lo ascolta. Ama esagerare ma non millanta, perché in fondo crede profondamente alla cifra mitica del proprio destino. È un semplice, ricavato dalla sostanza che accomuna gli zanni della commedia dell’Arte ed i protagonisti dei romanzi picareschi. Angelucci Marino fa convergere nel suo Arturo le diverse coordinate della tradizione popolare da lui personalmente amata ed artisticamente percorsa. Morde e rimastica passaggi ed episodi estrapolati dalla penna di John Fante (abruzzese, americano, picaresco per antonomasia) per nutrire gli umori mobili della sua creatura. La componente narrativa è basilare: Arturo entra in scena armato di padella ed animato da un impeto indecifrabile, uno strano nervosismo che non ci svela. No, perché per spiegarci cosa gli è successo oggi deve raccontarci la sua storia dalle origini. Perché in effetti Arturo lo chef è un racconto di formazione ma è anche la storia di una vicenda immutabile: il cammino arduo e tortuoso della vocazione e dell’autodeterminazione. Le sonorità pop rock dei brani di Alanis Morissette e dei Cranberries (un tributo a Dolores O’Riordan?) affiorano tra i diversi quadri del monologo, collocando le madelaines dei nostri sensi e della nostra memoria sull’asse specifico degli anni ’90. Ma fuori dai riferimenti spazio-temporali, emerge l’essenza del mood fantiano: il confronto controverso con la figura paterna, con una necessità disperante ed una realtà sempre distante dall’idea disegnata, sperata, agognata. Il viaggio delude immancabilmente, prelude a ritorni umilianti, ma prima di questo illude ed impone il suo costo materiale, fatto di denaro che non basta mai e di lacerazioni dell’anima che non si rimarginano. Così, è nell’eco struggente del tango argentino che le peripezie del nostro, nostrano Arturo trovano riparo e passo preciso.
Lo spettacolo utilizza una lingua verace, che avvicina lo spettatore alle vicende evocate ed ai meccanismi brillanti innescati dalla narrazione. D’altro canto, l’ampio utilizzo di espressioni dialettali non sembra limitare la ricezione efficace al solo pubblico abruzzese in virtù di un impianto di spettacolo che fonda sull’interazione con la platea.
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CREDITS:
“Arturo lo chef in Sud America”
di e con Stefano Angelucci Marino
collaborazione testo e regia: Rossella Gesini
musiche originali: Giovanni Sabella
scenografia: Filippo Iezzi
audio e luci: Tony Lioci
organizzazione: Teatro del Sangro
produzione: Teatro Stabile d’Abruzzo