ROF 2018
(sabato 11 agosto 2018, première e apertura del Festival)
Tanti stranieri per Rossini e non solo in platea
Un’opera insolita con tre tenori protagonisti (come solo in Otello) e un tenore comprimario, tre soprani, un mezzosoprano, un basso, un grande coro, una grande orchestra e una banda fuori campo. A tutti Rossini ha dato un bel filo da torcere.
E non è stato da meno il librettista Francesco Berio di Salsa, che li ha immersi in una vicenda piuttosto intricata. Agorante (tenore), re della Nubia, è sposato con Zomira (mezzosoprano), ma ama non corrisposto Zoraide (soprano di coloratura), figlia di Ircano (basso), potente signore della Nubia, Zoraide ama invece corrisposta il paladino Ricciardo (tenore virtuoso). A questi si uniscono Ernesto (tenore), amico di Ricciardo e ambasciatore cristiano, Fatima (soprano) confidente di Zoraide, Elmira (soprano) confidente di Zomira e Zamorre (tenore) dignitario di corte, cori di guerrieri e seguaci delle due fazioni.
È la solita storia di amori contesi e sofferti, ma a lieto fine, che nelle mani di un compositore come Rossini si snoda con scontri al fulmicotone tra i due tenori rivali l’un contro l’altro armati e incontri soavissimi dei due giovani innamorati.
Lunghissimi duetti hanno impegnato amanti ed antagonisti, terzetti, quartetti, concertati hanno occupato gran parte dell’opera in un crescendo tutto rossiniano, coinvolgendo la brava orchestra, che a volte ha sostenuto le voci, a volte le ha sfidate ed ha avuto un ruolo importante nel guidare il coro e le danze, forse le parti più attrattive per la leggerezza del suono, la godibilità dell’ascolto, l’armoniosità delle movenze.
Sui tre tenori ha brillato la magistrale padronanza del canto di coloratura di Juan Diego Florez nel ruolo dell’amoroso Ricciardo, che si esprime sempre con perfetta linea di canto, fluidità del fraseggio nelle effusioni sentimentali e nel canto a fior di labbra, naturalezza d’emissione nello snocciolamento delle fioriture, nello scintillio degli acuti e nella spavalderia dei sovracuti, spericolatezza e sicurezza nel canto di coloratura di forza. Florez è il tenore rossiniano per eccellenza, sul quale si è detto tutto, nonostante la sua giovane età, ma ogni volta ti sorprende, ti capta, ti coinvolge, ti porta nell’iperuranio dello stratosferico virtuosismo per un ascolto travolgente. Perfetto nel ruolo dell’amoroso anche grazie alla sua figura e all’espressione del viso, la resa del personaggio è stata intensificata da lunghi e ripetuti baci sulla bocca alla sua amata nel lungo e magnifico Duetto con Zoraide del secondo atto. E visti da vicino in tv si è captata la radiosità del sorriso dei due amanti nella finzione scenica.
Ha captato la nostra attenzione la prestazione di Nabier Anduaga nel ruolo di Ernesto, vestito di rosso, un giovane tenore dalle grandi qualità vocali e sceniche, con una bella gola, un bel colore e peso vocale, una corretta e spavalda proiezione del suono fino alle estremità acute.
Bravo ed espressivo Sergey Romanovsky, il baritenore dalla voce ampia e decisa, nel ruolo di Agorante, che ha la parte più lunga nell’opera. Riascoltato e rivisto in tv ne ho apprezzato maggiormente le doti vocali, l’emissione corretta, la morbidezza del canto nel pensiero di lei, la naturalezza degli affondi e degli acuti e sovracuti, la bravura nei salti e nella messa di voce, nonostante qualche agilità scivolata, la fierezza del portamento, l’autorevolezza del gesto, la prestanza fisica, non per nulla è spesso a petto seminudo, la sensualità dell’espressione nei suoi approcci con Zoraide. (Tutti questi particolari li ho apprezzati in TV, perché dal fondo della sala non li avevo proprio visti).
Ircano ha fatto il suo ingresso nel secondo atto con la possente e duttile voce del basso Nicola Ulivieri con armatura da guerriero.
Sul versante femminile si è apprezzata in Zoraide la bella presenza e la musicalità del soprano Pretty Yende (un usignolo dai mille colori), oltre all’abilità ad usare un mezzo vocale di buona pasta per lo scoppiettio di note nel canto di coloratura, per la pulizia del suono nelle scale ascendenti e discendenti, per la messa a segno di acuti robusti e sovracuti con trilli gorgheggi e picchettati, anche se la dizione non è stata sempre chiara.
Victoria Yarovaya ha cesellato una Zomira autorevole e determinata con una voce dal bel colore mezzosopranile, brunita e densa in zona medio grave, dove qualche suono si stringe, con emissione accurata e morbidezza del canto che si espande con pienezza e luminosità del suono nella tessitura alta.
I ruoli secondari hanno completato la correttezza della performance con le voci di Ruzil Gatin (Zamorre), Sofia Mchedlishvili (Fatima), Martiniana Antonie (Elmira).
È emerso in tutta la sua magnificenza vocale e scenica il Coro del Teatro Ventidio Basso, possente morbido e maestoso, preparato da Giovanni Farina.
Il regista Marshall Pynkoski ha optato per una distribuzione ordinata delle masse, ma ha vivacizzato l’azione con frequenti balletti e con le corse sfrenate di marinaretti con bandiere sventolanti, di color bianco e celeste o con una croce rossa, ha tenuto i duettanti lontani tra di loro ai due lati del palcoscenico, mentre ha lanciato i due innamorati in un mare di baci e abbracci.
Purtroppo un’opera con poche arie solistiche e non note, con una trama non sempre comprensibile per la dizione, non è facile da seguire dal fondo dell’Adriatic Arena se non si ha il supporto di un binocolo per distinguere le immagini e leggere i titoli in sovrimpressione.
La visibilità non era resa facile dalla cupezza delle scene di Gerard Gauci, un po’ pesanti, specialmente quando dominava una tenda da campo indiano a strisce marrone e gialle, contro cui si perdevano i bei colori vivaci dei costumi; maggior luminosità giungeva quando la scenografia, sviluppata su due piani, si apriva al mare e al cielo azzurro, alla grande luna e al firmamento punteggiato di stelle (tipo presepe). Carina l’idea di introdurre in scena Ricciardo su una barca tra le onde simulate da fluttuanti teli azzurri agitati da figuranti (Pizzi docet), mentre ragazze con il parasole si affacciano dal ponte.
Bellissimi per foggia e per colori i costumi in broccato e oro, ideati da Michael Gianfrancesco, che ho visto dai primi piani in tv, coreografie di Jeannette Lajeunesse Zingg, luci di Michelle Ramsay. L’opera sarebbe stata più godibile in un ambiente più raccolto.
La Sinfonia a sipario chiuso ha diffuso un’atmosfera triste con la voce calda del corno seguita da quella intrigante dei clarini e dalla leggerezza del flauto e dell’ottavino. Le pagine corali e le danze ci hanno regalato momenti di bella musica, mentre nei duetti e nei terzetti si è respirata un’atmosfera sospesa di attesa.
Giacomo Sagripanti ha diretto la grande Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, grande in ogni senso, che ha seguito il gesto attento del direttore nel sostegno delle voci e nella leggerezza delle danze, nel tinteggiare gli affetti e il lirismo dei duetti e dei terzetti, nel dare vigore ai crescendo e agli insiemi.
La Banda fuori scena, una novità per Rossini, ha restituito l’aspetto marziale di alcune scene, facendoci pervenire il suono lontano di marce militari.