“Chi è l’uomo? Se ne può avere fiducia? La domanda è sempre attuale. Ognuno se la pone quotidianamente a proposito delle persone che incontra e prima ancora, a proposito di sé stesso. Di fronte alla scelta tra il bene e il male come ci comportiamo? Perché all’uomo capita di scegliere il male? Anche il proprio male? Perfino quando vorrebbe scegliere il bene? Cosa comporta la libertà di scelta? Che condanna sarebbe se ci rendessimo conto che siamo liberi senza esserne capaci? E se Gesù, decidesse oggi, di tornare sulla terra, come quella volta a Siviglia ai tempi della Santa Inquisizione, verrebbe come allora, arrestato e condannato al rogo per aver concesso alle proprie creature una libertà che non potevano gestire? O verrebbe accolto amorevolmente come il salvatore? A e B, nel dramma di Michele Santeramo, affrontano tutte queste gravose domande provando disperatamente a dare delle risposte o più semplicemente, cercando, con commovente candore, di inventare un rimedio che li aiuti a sopportare la loro condizione. In un luogo preparato ad arte, come si potrebbe fare a teatro, cercano una possibilità altra, un’occasione di salvezza. Tentano di inventare una fede a proprio uso e consumo, che renda possibile credere che l’uomo può guarire l’uomo”. (Peppino Mazzotta)
Atto unico questo testo di Michele Santeramo diretto da Peppino Mazzotta e interpretato dai talentuosi Daniele Russo e Andrea Di Casa. In scena due uomini, attorniati da muri quasi sospesi sulle luci reali di irrealtà del teatro, come a simboleggiare i muri interiori che stanno tra di loro, i muri che le loro domande e il loro sofferto, a volte leggiadro, dialogo cercano di scavalcare. I due personaggi sono alla ricerca di sé stessi, hanno perso la propria identità, i muri che la delimitano e danno senso alla messinscena della loro esistenza. Qualcosa manca al sacerdote mancato e al suicida mancato per essere salvatore di sé e degli altri. Il loro passato li lacera, li rende ostaggi del bunker in cui si ritrovano, che non è fatto di muri spettrali, ma di memorie asfittiche, non condivise, segreti che li dissociano dal loro presente. Sono alla ricerca di una fede, che è fiducia rinnovata nell’altro, dialogo, apertura capace di far diventare un bunker di muraglie senza via d’uscita, una parola che si confessa e si libera dal suo giogo di silenzi. Nello scarno palcoscenico aleggiano interrogativi che attanagliano il cuore dell’uomo da sempre, il senso di colpa, l’identità, il perdono e che coinvolgono lo spettatore in una mimesi tuttavia irrisolta. Si è portati a sperimentare con l’ascolto quella fiducia verso l’altro, che il testo stesso di Santeramo mette in crisi, o meglio pone nella prospettiva dubbiosa della possibilità. È lo sforzo di credere alle intime potenzialità del testo teatrale di avere in sé quelle qualità anagogiche di miglioramento e consapevolezza, anche attraverso la messinscena del problema in tutte le sue annose articolazioni, che tuttavia è contemporaneamente tradito dalla stessa lacerata emotività dei personaggi sul palco. Un lavoro che scava nella fiducia stessa nel teatro di potersi ancora far carico dell’educazione all’ascolto di chi si avvicina ai suoi muri intangibili e alle sue distese vive, sia da parte dello spettatore che dell’attore. La parola del teatro è lo spazio di questa confessione, a cui è affidata la missione di ridare respiro e fiducia. La parola del teatro rivive in questa resa dei conti con le proprie paure più inconfessabili, con una mancanza di speranza che trova la forza di esprimersi solo attraverso il confronto con l’altro.
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Con Daniele Russo, Andrea Di Casa, atto unico di Michele Santeramo, Scene e costumi Lino Fiorito, Disegno luci Cesare Accetta, Aiuto regia Angela Carrano, Regia Peppino Mazzotta, Produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, Fondazione Campania dei Festival – Napoli Teatro Festival Italia