Un tavolo di obitorio con una figura umana irriconoscibile sotto un lenzuolo bianco e un personaggio dalla testa di coccodrillo che di quel lenzuolo tiene i lembi. Si apre così la scena de La signorina Else portato al Teatro Fabbrichino di Prato dalla Compagnia Lombardi-Tiezzi (drammaturgia: Sandro Lombardi, Fabrizio Sinisi, Federico Tiezzi; regia: Federico Tiezzi; produzione: Compagnia Lombardi-Tiezzi e Associazione Teatrale Pistoiese). Una scena già aperta, per così dire, visto che al Fabbrichino – così come a Le Stanze di Pistoia questa estate – l’allestimento prevede l’abbattimento della quarta parete e la disposizione del pubblico in intorno al tavolo di obitorio, molto vicino a quest’ultimo. Al posto del sipario, il lenzuolo bianco, a dare avvio al dramma nello scoprire il corpo di fanciulla che su quell’acciaio da dissezione è steso, morto o dormiente. Le prime, scomposte, parole della ragazza possono infatti essere pronunciate da un aldilà o da un “aldiqua” in cui si stia svolgendo un terreno dormiveglia. La prosecuzione della performance fa propendere per la seconda opzione: il tavolo è un letto su cui la giovane viennese Else, protagonista della novella di Arthur Schnitzler da cui lo spettacolo è tratto, fantastica i primi amori e le prime avventure erotiche nella residenza estiva di San Martino di Castrozza. Una ragazza esuberante, leggera e cinica come la sua età richiede, nonostante aleggi sin dall’inizio lo spettro di un certo dissesto economico familiare che la porta ad essere in una posizione di subalternità rispetto alla zia che la ospita, per niente incline a far da mediatrice tra la nipote povera e il figlio, cugino di Else di cui lei segretamente sogna nel suo letto da adolescente. Il dramma è come bipartito e la prima parte si consuma tutta nell’impertinente loquacità di Else e nella camaleontica capacità dell’attrice Lucrezia Guidone che le dà voce di vestire, al contempo, i panni di tutti i personaggi che ruotano attorno alla protagonista nella località trentina, meta turistica della buona società austro-ungarica. La cesura è costituita dall’arrivo di una lettera (anche nelle tragedia greche, l’annuncio di cui era latore un messo faceva piegare il dramma verso la tragedia). Nella lunga missiva giocata su toni altamente patetici, la madre di Else implora la ragazza di fare in modo di ottenere dal ricco signor Von Dorsaday una grossa somma di denaro – “trentamila fiorini, un’inezia!” -, capace di salvare dalla galera il padre dipendente dal gioco e la famiglia dalla bancarotta. Si dà il caso che Von Dorsday sia un amico del padre, già impegnatosi in passato nello strapparlo dalle grinfie degli usurai, ma anche un corteggiatore di Else. La richiesta della madre appare immediatamente come un invito alla figlia a vendersi per soldi all’anziana ed equivoca figura. Comincia il dramma. Martino D’Amico, che impersona Von Dorsday, indossa qui la maschera di coccodrillo, concretizzazione quasi infantile della paura di Else e della ferocia di una società che non esita a divorare una ragazza sotto l’egida dell’esortazione borghese al compimento del proprio dovere: è dovere di Else, infatti, fare quanto è in suo potere per aiutare il padre e salvare la famiglia dal discredito. In questa seconda parte entra sulla scena un terzo protagonista: il pubblico. L’insieme degli spettatori diventa la stessa società che rimane a guardare mentre la tragedia sta per svolgersi e che arriva a parteggiare per la morte di Else, sia per non dover più sopportarne l’atroce dilemma (sottoscrivere il “contratto” di Von Dorsday, che subordina l’erogazione del denaro al vederla nuda o rifiutarsi mantenendo intatta la propria dignità?) sia per non dover in prima persona tollerare la nudità della protagonista, cui lo svolgersi del dramma e la voyeuristica presenza dell’acciaio riflettente continuamente ammiccano.
Un intero dramma capace di tendere alla nudità dei corpi, dunque, allo sguardo malato di una società che di quel corpo si nutre, si pasce con ingordigia, fino a sperare che l’attrice mostri davvero le sue grazie. A significare, infine, che tutti noi siamo coccodrilli, nient’altro che coccodrilli.