La traviata è senza dubbio una delle opere più rappresentate e conosciute in tutto il mondo: dalla prima veneziana del 1853 è diventata forse il simbolo del melodramma italiano, ma anche, in un certo senso, il simbolo di un’epoca che ha rappresentato una delle massime espressioni del teatro musicale.
Uno dei motivi di questo enorme successo è indubbiamente la musica, immortale, di Giuseppe Verdi, ma ci sono altri due aspetti che sono forse meno evidenti, ma sicuramente altrettanto interessanti.
All’epoca della prima, sebbene nel libretto fossero già stati minimizzati gli aspetti più scabrosi della vicenda, ovvero quelli legati al mestiere della protagonista, che era certo una cortigiana ma pur sempre donna di facili costumi (nel pensiero del tempo sicuramente molto più di come potrebbe apparire a noi), l’opera fu ambientata nel secolo precedente, per renderla ancora più innocua. Questo nonostante fosse una chiara rappresentazione-critica alla contemporaneità.
Le vicende che si svolgono su quel palco sono inequivocabilmente una critica velata al mondo della metà del diciannovesimo secolo, alla società borghese che in quegli anni raggiungeva il suo apice culturale, pur mostrando già i segni di quella decadenza che sarebbe arrivata di lì a poco.
Ci sono alcune frasi del libretto che ci danno l’idea precisa, soprattutto nel secondo atto, di quello che è il vero messaggio dell’opera di Dumas figlio in primis, ma anche di Francesco Maria Piave e di Verdi, e come spesso accade nelle opere del maestro di Busseto, le vicende narrative servono a trasmettere un messaggio implicito, evidente almeno quanto quello esplicito.
Certo a noi, che siamo spettatori del 2019, e abbiamo un palato abituato ormai a gusti decisamente più forti – per usare un eufemismo – quest’opera, che pure voleva essere in qualche modo critica, appare invece ingenua, romantica in senso letterario e letterale, rivestita proprio di quella patina borghese che il maestro voleva criticare.
Ma allo stesso tempo ci appare estremamente moderna, perché in fondo il pregiudizio non ha tempo e la commistione tra redenzione e amore resta uno dei filoni narrativi intramontabili, pur se qui è ammantato ancora di quella poesia – in parte ingenua – che successivamente si è persa.
La traviata, quindi, è allo stesso tempo moderna e antica, ed è forse il primo vero spartiacque tra romanticismo e realismo: proprio in quanto tale possiede una bellezza unica e rivoluzionaria.
Questa produzione della Scala, ripresa regolarmente dal 1990, con la regia di Liliana Cavani, le monumentali scene di Dante Ferretti e i magnifici costumi di Gabriella Pescucci, è proprio così: affascinante come una anziana signora elegante.
Lo è perché riesce a mettere in scena qualcosa di sontuosamente bello, pur senza scadere in facili spettacolarismi. Riesce ad essere raffinata pur nella sua monumentalità. Insomma, ci restituisce alla perfezione l’essenza dell’opera originale, in modo lineare, elegante, forse perfino semplice.
Se poi aggiungiamo a questo quadro la bacchetta di Myung-Wung Chung e un cast di primissimo livello, il risultato non può che essere interessante.
Il maestro coreano si conferma uno degli interpreti verdiani più initeressanti dei nostri tempi: la sua concertazione è elegante, raffinata, potente ed equilibrata.
Marina Rebeka, che interpreta Violetta, possiede uno strumento potente e non si risparmia nello sfoggiarlo. Tecnicamente quasi ineccepibile, se non per qualche sbavatura (soprattutto un vibrato a volte esagerato), la sua prova manca però in parte di espressività nel primo atto, indugiando forse troppo su questo aspetto nel secondo e nel terzo, non riesce del tutto a trasmettere i risvolti psicologici del personaggio e la sua drammatica leggerezza. Si prende anche qualche libertà di troppo sullo spartito (nelle arie del primo atto: sempre libera in particolare).
Su Francesco Meli non si può dire altro che questo: un fuoriclasse. Preciso, espressivo, tecnicamente ineccepibile. Il suo Alfredo è forse uno dei migliori attualmente in circolazione.
Leo Nucci, che interpreta Germont padre, nonostante qualche difficoltà evidente con i fiati, si conferma un grande interprete.
Come sempre, buona la prova del coro, diretto dal maestro Bruno Casoni.
Teatro gremito e pubblico entusiasta a fine recita.