“Chi non ride mai, non è una persona seria” diceva Fryderyc Chopin. E detto da un musicista e compositore di questo calibro c’è da credergli. Una premessa necessaria, se vogliamo, per capire il senso del reading incentrato sulla commedia che si è tenuto al Marca di Catanzaro – con il patrocinio della Provincia di Catanzaro e della fondazione “Rocco Guglielmo” – i cui protagonisti sono stati gli attori della compagnia del Teatro di Calabria (Mariarita Albanese, Salvatore Venuto, Aldo Conforto e Paolo Formoso) che hanno interpretato brani tratti da “Il borghese gentiluomo” di Molière, l’“Orlando Furioso” di Ludovico Ariosto e “L’umorismo” e “La patente” di Luigi Pirandello. Un percorso tracciato e che ha avuto come guida d’eccezione un professor Luigi La Rosa in grande forma che ha condotto lo spettatore all’interno di questo viaggio complesso del “sorriso che mette a nudo l’anima” e che ha naturalmente fatto pensare e dunque suscitato delle riflessioni. Si, quelle riflessioni che nascono dal profondo di ciascuno di noi e che ci “avvertono” che qualcosa nelle storie dei personaggi che andiamo ad indagare non siano soltanto quelle che vediamo, banalmente. Del resto, non è un caso se vi sia differenza tra umorismo e comicità per dirla con Luigi Pirandello giacché il momento della riflessione serve a passare dall’«avvertimento del contrario», proprio del comico, al «sentimento del contrario», proprio dell’umoristico. Grazie a tale sentimento, se si riflette sulle ragioni per cui una vecchia signora si trucca come se fosse una fanciulla, si può giungere a compatirla in modo amaro. Perché “si può sorridere in maniera divertita, – si legge in una nota dello spettacolo – ridere in maniera amara o non ridere affatto, pur trovandosi davanti a situazioni oggettivamente grottesche o ridicole” come avrebbe, del resto, potuto essere quello della vecchia signora. Il punto è dunque riflettere, prima ancora di ridere, se ne si è capaci. La Rosa nel suo excursus cita non a caso Henri Bergson – a cui Pirandello si richiamerà – l’unico autore che cambia qualcosa nella concezione del comico nel suo saggio del 1900: “Il riso”. Bergson definisce la comicità “come “meccanizzazione della vita”, o meglio: tutto ciò che a noi si presenta – si legge ancora nella nota – come maldestro, automatizzato, privo della vitalità e della spontaneità del quotidiano. Possiamo essere interessati alle caratteristiche umane di un personaggio, alle sue qualità, a ciò che di positivo c’è in lui. Ma nel momento in cui quel personaggio rompe quella vitalità con un’azione meccanica, goffa, noi ridiamo”. Ridiamo di un dramma, dunque. E se con il grande Carlo Goldoni la commedia ritorna ad interpretare la società attraverso una lente che non è più deformante, non è più il grottesco che invita al riso, ma è quest’ultima, la commedia appunto, che invita alla riflessione, è, tuttavia, Bergson che sostiene come ciò che ci fa ridere è un dramma di cui non ci accorgiamo, perché non azioniamo la riflessione. “In questa esemplificazione della teoria bergsoniana del riso, s’inserisce un tema estremamente importante: la capacità unica e tipica della commedia, – conclude la nota – di poter mettere in connessione situazioni ed emozioni apparentemente agli opposti”.