I Promessi Sposi rappresentano per generazioni di studenti (di ogni ordine e grado) più una croce che una delizia per esserne stata prescritta per lustri dai programmi ministeriali la lettura integrale nel biennio e la rilettura completa anche nell’ultimo anno di qualsiasi corso di studi superiori affrontando la figura di Alessandro Manzoni dalla cui penna è scaturita siffatta ‘tortura’ con annessi e connessi: un classico di grande spessore e insieme una pietra miliare della nostra letteratura.
I pochi docenti che ne hanno obbligato la rilettura in prospettiva dell’antico spauracchio della ‘maturità’ – spinti soprattutto dall’indubitabile vis formativa del romanzo dal punto di vista sia della lingua, sia dell’analisi degli individui e della società del tempo – hanno fatto sì che gli allievi lo potessero apprezzare comprendendone le qualità grazie anche alla loro maggiore maturità.
Da una lettura attenta e approfondita del capolavoro manzoniano emanano un fascino e una suggestione che non hanno risparmiato Giovanni Testori (Novate Milanese 1923 – Milano 1993), persona dalla straordinaria sensibilità ed eclettico personaggio: drammaturgo, scrittore, critico letterario, storico dell’arte, poeta, regista, attore e pittore che dal continuo e ripetuto confronto con il testo di Manzoni ha tratto nel 1984 I Promessi Sposi alla prova, oggi a sua volta un classico: allora messo in scena con Franco Parenti dalla giovanissima André Ruth Shammah proprio in quel teatro Pier Lombardo che è sbocciato grazie alla triade Parenti-Testori-Shammah e in cui oggi viene ripreso e adattato da quest’ultima.
Ne è conseguita un’urgenza di mettere in scena tale lavoro ieri e ancor di più adesso – momento in cui molti valori sono appassiti e venuti meno – per fare il punto sugli attuali rapporti umani ‘rimettendosi alla prova’. Di valori, verità, sentimenti ed emozioni se ne ha bisogno come dell’acqua e del pane quotidiano ed ecco allora Testori – uomo tormentato – che scava, disseziona e ricostruisce il testo manzoniano adattandolo alla contemporaneità per trovarvi lo stesso significato della vita e la medesima religiosità e spiritualità oltre alla propria poetica teatrale.
In questa versione, Luca Lazzareschi impersona egregiamente diversi e impegnativi ruoli: Maestro, don Abbondio, fra’ Cristoforo, Innominato… riuscendo a rendere le differenti sfaccettature di umanità fluttuanti nel testo manzoniano e a divertire il pubblico con battute ironiche che concorrono a smorzare la lunghezza della pièce. Accanto, oltre a una duttile e coinvolgente Laura Marinoni dolente nei predestinati e mal accetti panni di Gertrude e in quelli compostamente disperati di una madre cui la terribile ‘peste’ ha già sottratto una bimba, due attrici di valida professionalità come Carlina Torta e Laura Pasetti.
Non tutti hanno, però, la stessa capacità di rendere vivo lo spettacolo anche se l’acerba e ingenua giovinezza di Nina Pons (Lucia) risulta a tratti curiosamente attraente per la sua freschezza, mentre appare meno convincente l’interpretazione di Renzo un po’ troppo bambinone. Convincente Sebastiano Spada nei panni di Don Rodrigo: non più il tirannico e prepotente signorotto di ieri, ma uno dei numerosi individui senza età di oggi chiusi nei loro egoistici bisogni, incapaci di relazionarsi in modo autentico nel lavoro e nella vita privata e indifferenti verso l’altro considerato mero strumento da utilizzare finché è utile e poi cencio da mettere in un angolo se non da eliminare, se fa ombra…
Non che Manzoni sia stato la perfezione fatta persona come ben ha mostrato la critica psicanalitica che di ogni letterato mette in luce sfaccettature di umanità dolente e gioiosa, peccatrice e pura e generosa fino all’eroismo: insomma quello che eravamo, siamo e saremo nel teatro dell’esistere.