In scena al Teatro Argentina di Roma un incontro tra voci diseguali, e diseguali accordi nelle stanze del potere della casa shakespeariana, il Tito Andronico incontra Giulio Cesare, il primo ridotto ad uno zimbello, il secondo esaltato nella sua contemporanea magnificenza e orrore. Incontriamo tra le tende del Teatro due esperienze differenti con le quali riviviamo l’umanità e l’inganno nell’era contemporanea in cui la comunicazione, il marketing, gli inscatolamenti plastici possono fuorviare sempre più coloro che ci se ne ritrovano invischiati.
Tito è un antieroe dei nostri giorni, tornato dalla guerra, ha accumulato nello sguardo e nel corpo orrori di cui non più si vuol curare, ciò che cerca nell’ordinaria quotidianità è la normalità, una normalità che ora attraverso la violenza su sua figlia, ora attraverso un inganno perpetuato, lo porterà sempre più lontano da quelle sonorità armoniche in cui la voce di Antony and the Johnsons ci accompagna; i figli di Tamora, Aronne, Saturnino, Marco, Bastiano, Lavinia e tutte le voci della grande Tragedia si rivoltano all’altro e al copione, in un rifiuto del peso che questa gli porta. L’attore non ce la fa più, scarnifica il testo, lo mozza, e così facendo gli impedisce di splendere nella parola primigenia, nell’urgenza primordiale che qui viene onnubilata e fatta cadere come Icaro che per folle richiamo avvicinatosi di troppo al Sole si ritrovò con le ali sciolte, schiantato in terra. Non vi è nulla nella riscrittura di Michele Santeramo, io credo – con l’ombra del dubbio, che si avvicini ad una forte consapevolezza circa quello che era l’intento, e il senso delle parole portate sulla scena, il senso della struttura dialogica attraverso la quale si va scomponendo la bellezza originaria, resa qui carne alla mercé di un pubblico che ride, si diverte, fischia quasi fossimo allo stadio e non al Teatro Argentina. Osserviamo sul palco un ottenebramento della potenza evocativa cinquecentesca, un vuoto a rendere fatto di risate, omissioni volgari, superfici stridenti che si accordano su una tonalità che sa di menzogna, quella che vive in una riflessione fatta di voglia di stupire e far gioire il pubblico senza però rispettare l’importanza dell’opera che si ha tra le mani, un’opera cardine divenuta carne da macello nel mattatoio delle riscritture contemporanee da cui viene tagliata, spellata, imbellettata nella perdita del suo sapore più avvolgente, più forte, più vero. Shakespeare non è uno scrittore facile, e allo stesso tempo per chi lo legge può essere semplice, ma semplice non vuol dire sciocco, così il suo essere semplice si rinnova e splende tragedia dopo tragedia nella grandezza del suo fuoco interiore e della maestria sublime con la quale fa seguitare i versi, le parole, gli accadimenti; non vi può essere per uno scrittore contemporaneo orrore più fatale di quello di una riscrittura facile, di un testo così grande da essere una pietra miliare per il teatro e per la riflessione sulle dinamiche di potere, di vendetta, di sangue, e follia che attorniavano l’uomo elisabettiano così come quello attuale. Colui che va a dissacrare ha il dovere morale di comprendere «Perché? In che modo?», rendendo sacra la sua dissacrante rappresentazione che altrimenti diviene solo questo: ridicolo.
Sublime ripresa invece, successiva all’intervallo, un intervallo necessario per respirare, ordinare le idee, e fare spazio alla bellezza che di lì a poco le parole poetiche e politiche di Fabrizio Sinisi per la regia di Andrea De Rosa ci doneranno.
Giulio Cesare. Uccidere il tiranno porta conoscenza riflessiva, specchio di volti odierni tra le voci della platea che si fanno sempre più silenti e attente all’insegnamento dei quattro interpreti sul palco; il “Giulio Cesare” diviene qui una contemplazione dolorosa di quello che è lo spettro del vivere umano fatto di contraddizioni, passioni divergenti, modi di essere e sentire che non sempre possono andare d’accordo con un dovere politico che ci richiama a sé nella figura del Padre, una figura topica tramandata nei secoli a partire da quella prima mitologia greca [ma anche prima] nella quale i padri uccidevano e divoravano i figli, fino ad arrivare alle più recenti riflessioni freudiane e lacaniane sull’autorità, sulla Parola del padre, sulla funzione che questa autorità ha nella separazione e nel processo di individuazione del figlio. Così Bruto parla, si rivela, e dalla botola in cui si presenta inizia a raccontare la storia di ciò che fu, di ciò che accadde quel 15 marzo del 44 a.c., quando 13 e più senatori si organizzarono per l’uccisione di suo padre Gaio Giulio Cesare.
La profondità delle parole, dello spettro del cesaricidio; il fomento vorace dell’atto, la ricerca del riscatto, e del riconoscimento di ciò che è stato, qui si inabissa nel passaggio lungo tre botole dalle cui luci nascono le voci del Figlio, di Casca e di Cassio; nel vissuto dei loro corpi ci inoltriamo nella notte degli eventi, mentre Marco Antonio con della terra nera sotterra l’immagine di ciò che fu: “Nessuno di noi sa / che forma avrà la vita, / che forma avremo noi / quando riemergeremo / al mondo da quest’incubo. /Un tempo nuovo inizia”. E tutto torna, e ritorna, ripartendo dal via poiché la morte di un uomo non conduce alla morte dell’idea da cui egli stesso ha preso forza e nutrimento; la morte di un uomo non conduce alla morte di tutti coloro che osannandolo e richiamandolo a sé lo innalzano a idolo e Padre della Nazione a cui relegare il proprio pensiero, la propria emotività, il proprio destino. La regia notturna, in penombra arcaica, di Andrea De Rosa espande i limiti dell’emozione scenica, e della Parola che acquisisce corpo, nel corpo esperienziale dello spettatore i cui richiami agli orrori della guerra, del fosforo bianco, delle bombe atte allo sterminio dei bambini, la penna di Sinisi porta. Vi è nell’atto, nella ripetizione del gesto, nel salire e scendere scenico una verità rispetto alla coazione a ripetere di schemi non elaborati che nel corso della storia cambiano il volto eretto su istanze sempre uguali: ma qui forse uno sprazzo di speranza?
Fabrizio Sinisi, classe 1987, si prende cura del testo e sceglie osservando il contesto la strada più consona alla riscrittura di una sublime tragedia; c’è nel suo scegliere un’attenzione a ciò che era e a ciò che è – nel rispetto del vero che risplende ad ogni battuta misuratamente studiata e sentita, battuta posta nel riquadro giusto di un puzzle più ampio che trascende lo scenario teatrale e tocca tematiche politiche, etiche, estetiche contemporanee di cui c’è necessita che ora come in altri tempi si parli, e su cui si pongano le riflessioni di colui che guarda, e che troppo facilmente alle volte distoglie lo sguardo, e l’orecchio da un grido d’aiuto e da una ferocia autenticamente prodotta dal nostro tempo. Così i suoni disturbanti, l’azione concitata, lo spostamento di Marco Antonio tra i corridoi della platea ci impedisce la fuga – ed alcuni degli spettatori fuoriescono dalla sala, in un crescendo di verità, ed estensione evocativa che giunge da terre non troppo lontane come potrebbe essere Aleppo, anziché Filippi, una città distrutta, martoriata nel cuore, uccisa di dolore, e silenzio, e grida inascoltate, grida di bambini, grida di madri, grida d’animali e padri lasciati lì soli con il proprio dolore, mentre dall’altra parte del mondo continua la retorica dell’inganno, dei confini, e dell’indifferenza. Un applauso e meritato plauso a questa opera integrata tra una regia eccelsa e una scrittura altrettanto meritevole di nota, nella quale vengono esaltate le doti e i temperamenti di Nicola Ciaffoni, Daniele Russo, Rosario Tedesco, e Andrea Sorrentino. Consapevolezza e bellezza alle volte, come l’arte e il noumeno, si incontrano; consigliata visione.
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Credits
Tito
di Michele Santeramo
con Andrea Bancale, Roberto Caccioppoli, Antimo Casertano, Fabrizio Ferracane, Martina Galletta
Ernesto Lama, Daniele Marino, Francesca Piroi, Daniele Russo, Filippo Scotti, Andrea Sorrentino, Rosario Tedesco
regia Gabriele Russo
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Giulio Cesare. Uccidere un tiranno
di Fabrizio Sinisi
con Nicola Ciaffoni, Daniele Russo, Rosario Tedesco, Andrea Sorrentino
regia Andrea De Rosa
produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini