Terzo anno per Antonio Latella alla direzione artistica della 47esima edizione di Biennale Teatro. Dopo il “dilemma” dell’attore/performer che ha accompagnato la programmazione dello scorso anno, tema di questa edizione 2019 è stata la drammaturgia, o meglio le drammaturgie. In che modo tendenze e percorsi drammaturgici variegati si stanno muovendo all’interno del teatro dei nostri tempi? Questo l’interrogativo iniziale, al quale Latella ha risposto con una programmazione che vede protagonisti proprio coloro che, normalmente, camminano sempre un passo indietro ai registi e agli attori. Oggi, la figura del drammaturgo sta diventando sempre più essenziale in un teatro in cui alla scrittura tradizionalmente intesa è stata affiancato «il gesto dell’attore, l’oggetto scenico, la scenografia, il costume, la luce, il suono e ogni cosa che concorre alla realizzazione dell’evento teatrale», come afferma lo stesso direttore artistico.
Ho seguito la programmazione di Biennale Teatro sabato 3 e domenica 4 agosto, giorni conclusivi del festival. In scena il Leone d’oro alla carriera Jens Hillje con Es sagt mir nichts, das sogenannte Draußen e Die Hamletmaschine; l’olandese Julian Hetzel con I’m not here says the void e The automated sniper; il pluripremiato regista italiano Alessandro Serra con la prima assoluta della sua versione de Il giardino dei ciliegi. Jens Hillje, Leone d’oro alla carriera, è un esempio significativo di quali possano essere, oggi, i compiti e le funzioni di un drammaturgo.
Tedesco d’adozione, è il fondatore del Gorki Theater, ensemble di Berlino nato dall’unione di artisti di provenienza geografica eterogenea. «Gli artisti del Gorki sono tedeschi, turchi, curdi, israeliani, palestinesi, siriani, polacchi, serbi, bosniaci, francesi, italiani, cristiani, ebrei, sunniti, aleviti, agnostici, atei, omosessuali ed etero, semplicemente berlinesi. E il Gorki Theater dà loro e alle loro storie una casa artistica nel cuore della città». Es sagt mir nichts, das sogenannte Draußen (2013) è il primo lavoro che porta alla Biennale. Letteralmente tradotto Il cosiddetto fuori non mi dice niente, lo spettacolo scritto da Sybille Berg, autrice dallo stile femminista, ironico e graffiante, è un flusso di coscienza “vissuto” sulla scena da quattro performer (nel caso della Biennale tre poiché una di esse era impossibilitata ad andare in scena). In uno spazio vuoto, dominato solo dalla presenza di qualche bottiglia di plastica piena a metà d’acqua, le tre performer sono un unico corpo attoriale che dipana passo dopo passo la storia di una giovane donna in balia delle relazioni superficiali e sempre più mediate dai social network e da uno schermo, sballottata fra canoni di bellezza impossibili da raggiungere e riflessioni sulla condizione della donna oggi. Dimensione femminile da un lato, età anagrafica dall’altro: in scena il disagio di vivere di una generazione in bilico fra i trenta e i quaranta in cui le possibilità che la vita offre sono più o meno tutte aperte ma, forse proprio per questo, viene fuori prepotente un senso di colpa interiore dato dal non sapere precisamente “cosa si vuole diventare da grande”. L’urgenza comunicativa e di espressione forte delle performer non si traduce mai in niente di stratificato, non scalfisce la parete superficiale di un utopico senso di realizzazione, imbevuta in un’anestesia da tecnologia che fa preferire alla partecipazione ad un evento aggregante una tranquilla serata a base di Netflix. Il cosiddetto “fuori” fa paura, meglio chiudersi a casa con una madre frustata e un padre assente all’appello, in una comfort zone che è in realtà una prigione autoimposta. Irriverente e dissacrante per certi versi, lo spettacolo è un colorato magma dall’andamento drammaturgico perfettamente oliato, interpretato dalle tre performer come un discorso coreografato che non lascia spiragli o quasi per prendere respiro, sempre costretto fra azione, declamazione, e naturalmente il gesto del bere da quelle bottiglie d’acqua disseminate sul palco. L’acqua come alcool, risposta immediata e scappatoia facile dai problemi, ma che simboleggia anche il bisogno di “riempirsi”, il bere quasi senza tregua come il voler riempire il vuoto in una spirale che non porta mai alla piena soddisfazione. La giustificazione finale all’immobilità è quella di pensare di aver ancora “tutto il tempo del mondo” perché si è giovani, non imparando niente dalla dimensione effimera e sfuggente del tempo.
«Io lavoro affinché sul palcoscenico siano affrontate nuove e differenti tematiche e nuove e differenti tematiche siano raccontate. E affinché il pubblico impari a vedere in modo diverso. E per tanti spettatori questo è un dono. Modificare il proprio sguardo può schiudere nuovi mondi». Queste le parole di Jens Hillje che spiegano perfettamente il processo davanti al quale ci si trova guardando uno spettacolo come Die Hamletmaschine (2017), in scena dopo la cerimonia di consegna del Leone d’oro alla carriera da parte del presidente de La Biennale di Venezia Paolo Baratta e del direttore artistico di Biennale Teatro Antonio Latella. Uno dei capisaldi del teatro di Heiner Müller, omaggiato da Biennale Teatro come forse il più importante esponente di quella drammaturgia testuale che si distacca dall’idea tradizionale di personaggio e dallo sviluppo lineare di una narrazione. Il suo Die Hamletmaschine, diretto da Sebastian Nübling, viene portato in scena dall’ensemble del Gorki Theater, che rappresenta l’eterogenea città di Berlino. In scena attori costretti a vivere in esilio provenienti da Siria, Palestina e Afghanistan. Le nove pagine del testo del 1977 di Heiner Müller ispirato all’Amleto di Shakespeare vengono dissezionate dall’ensemble per collocare gli originali temi del femminismo, dell’oppressione e della brutalità dentro i confini della guerra in Siria. «La scenografia è allestita per i clown della Primavera Araba, il loro terreno performativo è Damasco. Intrecciando il testo contemporaneo di Ayham Majid Agha con quello di Heiner Müller, veniamo attirati in una performance che si interroga su guerra e rivoluzione da una prospettiva peculiare, performativa e multilingue». Su uno scenario cupo, dove il buio e le luci creano il contesto in cui i performer agiscono, la musica e le frasi che appaiono di volta in volta lungo i teli neri producono una sensazione straniante, che tiene lo spettatore perennemente sul “filo del rasoio”, restituendo una storia antichissima, i cui immortali insegnamenti parlano ancora oggi. Il teatro di Müller è un ampio spaccato di quella che Elisabetta Niccolini definisce una “poetica negativa della storia”, e il senso dello spettacolo sta nell’intelligenza di aver trasportato sulla scena quei frammenti testuali dell’autore collocandoli su diversi piani storico-culturali. Del resto una delle peculiarità del teatro di Müller è proprio questa: Die Hamletmaschine è un testo aperto a riscritture/riletture, composto da citazioni che rispondono ad una crisi contemporanea in cui forse non si può far altro che guardare nel passato per trovare un senso nel presente e nel futuro e in questo senso il Gorki Theater compie un atto profondamente riuscito, politicamente inserito in una contemporaneità da cui stilla sangue, umanamente necessario.
L’olandese Julian Hetzel è quello che si dice un performance maker, sviluppa spettacoli a metà fra teatro, musica e media caratterizzati da una forte dimensione sociale e politica. «Nel mio lavoro esploro il confine sottile tra spettatori e testimoni, tra etica ed economia, tra riciclo e sfruttamento, tra responsabilità e libertà artistica. Tutti i tre lavori presentati alla Biennale hanno come cardine un determinato principio: la creazione attraverso la distruzione». Declinata secondo diverse modalità, nei due spettacoli da me visti in scena alla Biennale, Hetzel compie un lavoro di creazione quasi artigianale, curata nei minimi dettagli, per poi istillare nel processo scenico un problema che genera la crisi in conseguenza della quale l’unica via percorribile risulta essere la distruzione totale. Questa, è resa possibile grazie agli oggetti in scena, pochi, anzi essenziali, ma investiti di un ruolo drammaturgico e d’azione importante tanto quanto i performer.
I’m not here says the void (2014) è il secondo spettacolo da lui presentato alla Biennale. La traduzione letterale del titolo in italiano è Non sono qui dice il vuoto. Si parte già da una negazione, che ne genera altre in un ciclo che punta all’autodistruzione, anzi forse addirittura all’estinzione dei performer e dell’ambientazione generata sul palco. Lo spettacolo è una sorta di percorso visivo e sonoro attraverso oggetti di plastica oscuri e malleabili. Mediante una serie di azioni lente e reiterate, i due performer entrano in relazione non tanto fra di essi, ma con i sacchi di plastica che diventano in qualche modo essi stessi soggetti con i quali interagire, cercando situazioni di normale e rassicurante quotidianità su un divanetto. Non c’è nulla di normale e rassicurante però in questo, e lo spettacolo devia improvvisamente su un piano molto più intenso e denso, quasi drammatico. Stasi, negazione, immobilità. Si è in attesa di qualcosa che non arriva, e allora l’unica relazione possibile fra i due performer è la simbiosi nella profonda volontà di distruggere ogni cosa. In un crescendo lento e graduale di pathos distruggono completamente il divano, scardinandone i braccioli e lo schienale, disfacendo la gommapiuma all’interno, facendo a brandelli il tessuto di cui è rivestito. Scarnificazione e foga diventano indiscusse protagoniste. La musica gioca un ruolo fondamentale, è l’humus sul quale l’azione trova e raggiunge il suo compimento. La negazione arriva ad autoinfliggersi l’estinzione, i performer si nascondono sotto il telo nero che copre il palcoscenico, scomparendo alla vista. All’apice della tensione scenica nere sculture fluttuanti, grandi “meduse di plastica” fanno il loro ingresso allargando i loro tentacoli ovunque, segnando così simbolicamente la fine dell’umanità. «Un invito ad allenare collettivamente l’immaginazione». Chapeau a Julian Hetzel per la creazione di un immaginario immersivo dal quale si esce sinceramente colpiti.
The automated sniper (2017) invece, gioca ancor di più sulla scrittura che modifica la scenografia iniziale della performance, diventandone parte integrante. Fulcro tematico dello spettacolo è la trasformazione della violenza in atto ludico. Partendo da una riflessione sulla distanza sempre maggiore fra i combattenti che le armi di guerra sono riuscite a creare, due performer vengono letteralmente bombardati di vernice sparata da un laser posto sopra la testa degli spettatori in platea. La performance inizia come un simpatico e innocuo gioco interattivo che richiede anche la partecipazione di volontari fra il pubblico per sparare sulle pareti bianche che delimitano il “campo di battaglia” costituito dal palcoscenico, per poi proseguire in un’escalation di violenza attuata in tempo reale da un giocatore professionista in videochiamata da Baghdad. Parallelamente a questo filone, la performance sviluppa una critica indiretta all’arte contemporanea che si compone sempre più di oggetti sistemati senza un apparente senso logico e che altro non sono forse che il risultato della perdita della bussola nella nostra stratificata e confusa contemporaneità. Una performance di forte impatto visivo ed emotivo, verosimile in quanto fondata su una fetta di realtà intrisa di guerra troppo spesso sottovalutata, nascosta, occultata. Make art great again, scrive alla fine nero sul bianco della parete uno dei performer, un monito o forse addirittura la mission di questi artisti capitanati da Julian Hetzel con spettacoli come questo, che abbandona l’estetica tradizionalmente intesa per veicolare messaggi importanti che mirano alla sensibilizzazione di chi sta loro di fronte.
Unico spettacolo italiano visto in questi giorni conclusivi di fitta programmazione, la prima assoluta de Il giardino dei ciliegi di Čechov diretto in una nuova traduzione da Alessandro Serra. Dopo l’enorme successo di critica e pubblico del Macbettu, in tournée in tutto il mondo da oltre due anni, il regista di origini sarde affronta un altro importantissimo classico, recuperando significati e persino parti di testo che parevano perdute o almeno dimenticate. «Fare teatro come lo faccio è il mio modo di vedere la vita, rifare la vita per proteggerla e imparare a vederla, vederla meglio…», dice Serra a proposito del suo metodo di lavoro. Metodo che in questa nuova produzione traspare forse annebbiato rispetto alla potenza evocativa, immaginifica e visionaria del Macbettu. Tre ore di spettacolo, due atti, un cast di dodici attori e poca freschezza registica, lo spettacolo è sicuramente un’ottima messa in scena dal punto di vista tecnico ma l’elemento stridente è la mancanza di novità, quel particolare guizzo creativo potente capace di incollare gli spettatori alla sedia. Per Serra Il giardino dei ciliegi è «un “valzerino” allegro in una commedia intessuta di morte». Si percepisce molto chiaramente la visione prettamente malinconica del regista dell’ultimo dramma di Čechov, nonostante le scene di libertà danzante in cui i tratti farseschi dell’opera del 1903 sembrano comparire nei personaggi che per un attimo accantonano le tragedie della loro vita, confluenti nella perdita di quella proprietà tanto amata. Sono queste forse, le scene più interessanti, dove fra canti e danze perfettamente cadenzate e coordinate si costruisce una drammaturgia scenica corale capace di evocare quel mondo e quel luogo così lontano da noi, così dolceamaro.