La drammaturgia di Sergio Blanco è come costruita sulle spalle dei giganti. I giganti della montagna di Pirandello. Ma non solo. Tebas Land è la terra di Tebe, quella di Edipo, il parricida per eccellenza, noto a molti forse per il complesso a lui intitolato da Freud piuttosto che per la versione sofoclea del mito. Per Tebas Land passano poi San Martino di Tours, Dostoevskij coi suoi fratelli Karamazov, l’ultimo Truman Capote. Citati, richiamati o soltanto evocati, tutti nella giusta misura, ben dosati nel bagaglio dell’autore franco-uruguaiano che Pupi e Fresedde ha scelto per inaugurare la stagione di Rifredi, con la traduzione e la regia di Angelo Savelli. Blanco fa tesoro di tutto ciò che la storia, la letteratura, il teatro hanno già detto sul parricidio per darne una versione completamente originale. È la cifra dell’autore, lui la chiama autofinzione e la definisce come il lato oscuro dell’autobiografia, in cui vige un patto di menzogna: «laddove l’autobiografia promette fedeltà e aderenza alla realtà, l’autofinzione giura infedeltà e slealtà al documento originale». Si mette la propria esperienza, la propria sensibilità, e poi si mente spudoratamente, candidamente, come si può e si deve fare in teatro e una volta di più. Va da sé che, qualsiasi storia racconti, una messinscena che si definisca autofinzione mette in discussione la fiducia del pubblico in chi ha davanti, la sua capacità di credere a quello che vede.
Tebas Land viaggia su tre binari, tre livelli di narrazione che si intrecciano e si sovrappongono. Uno, la storia di un figlio che uccide il padre con ventuno forchettate. Due, i colloqui che un autore fa col parricida, in carcere, per trarne uno spettacolo in cui il reo interpreti sé stesso. Tre, le prove dello spettacolo con un attore che, per ordini dall’alto, deve sostituirlo sul palcoscenico. Dentro e fuori una gabbia – alta, secondo le disposizioni, almeno tre metri – Ciro Masella e uno straordinario Samuele Picchi si muovono su questi tre diversi binari, donandoci diverse angolazioni da cui guardare la scena del crimine. Che presto, però, resta in secondo piano, lasciando sul proscenio il rapporto tra il parricida e l’autore e tra questo e l’attore, che al parricida finisce un po’ per assomigliare. Nel dialogo, e dunque nel confronto, tra le diversità personaggi e pubblico trovano insieme la chiave di lettura di un gesto a priori inconcepibile, spaventoso. Si ha l’impressione che a un certo punto l’autore si fermi di fronte alla realtà, si arrenda alla potenza della molteplicità del retroscena rispetto all’unicità del testo che voleva trarne: dopo aver indagato la vicenda, sviscerato le sensazioni, i riferimenti, perfino i casi fortuiti, arriva alla conclusione che niente può descrivere un soggetto come la somma delle reazioni che provoca e delle relazioni che instaura, la somma delle sue verità, filtrate con gli occhi degli altri. Perché in fondo ognuno ha il proprio filtro, anche lo spettatore più disinteressato, e ce ne accorgiamo solo quando ce ne viene mostrato un altro. Io vedo la mia distanza dal personaggio quando mi accorgo di quella tra lui e l’attore che lo interpreta, e tra lui e chi tenta di scrivere la sua storia. Notate le distanze, si possono solo accorciare, e alla fine il delitto non è così efferato come sembra da uno sterile fascicolo. Ma non c’è condanna né assoluzione – il che è fondamentale. C’è l’instillazione del dubbio: cosa sia giusto e cosa no, come mi sarei comportato io al suo posto. Torna alla mente un altro nome, tra i grandi già citati, quello di Leopardi: «La nostra ragione non può assolutamente trovare il vero se non dubitando; ella si allontana dal vero ogni volta che giudica con certezza; e non solo il dubbio giova a scoprire il vero, ma il vero consiste essenzialmente nel dubbio, e chi dubita sa, e sa il più che si possa sapere.»
Tebas Land ci mostra il più che si possa sapere su un parricidio, che poco importa sia avvenuto realmente o meno, e sull’essere padre e sull’essere figlio. Lo fa mostrando l’universalità e insieme la singolarità del rapporto, la conflittualità portata all’estremo e la spontaneità di donare un insegnamento. Una tensione continua che si autofinge teatrale e nella menzogna trova la sua verità.