Gli uomini pensano di avere ragione, per questo amano fare la guerra. Cito a memoria una delle frasi più significative del testo di Emanuele Aldrovandi, portato ancora una volta in scena da Ciro Masella, che, oltre a curare la regia, interpreta il generale, affiancato dai suoi sottoposti Michele Di Giacomo e Marzia Gallo.
Un esercito che ha tutte le caratteristiche di una grande potenza occidentale è accampato in una terra di selvaggi per una missione di pace. Un film già visto in televisione negli anni non lontani delle missioni di pace americane in Medio Oriente. Il generale nasce proprio in questo contesto storico, nelle manifestazioni per la pace a cui Aldrovandi partecipa durante gli anni del liceo, dai versi di Contessa cantata dai Modena City Ramblers che risuonavano nelle piazze «… ma se questo è il prezzo vogliamo la guerra, vogliamo vedervi finir sotto terra». Scritta nel 1966 da Paolo Pietrangeli, Contessa è diventata presto la colonna sonora di tante battaglie politiche e sociali. Vogliamo la guerra, dice, e lo dicono, lo urlano i manifestanti del ’68 come quelli di oggi, lo canta Aldrovandi in piazza nel 2010 quando decide di scrivere questa pièce.
La rivendicazione della pace attraverso la guerra, le missioni di pace operate da eserciti armati: le contraddizioni in termini a cui ormai siamo assuefatti. La guerra vera, senza sconti, travestita da extrema ratio a cui si è costretti dopo innumerevoli, vani tentativi pacifici. Il drammaturgo emiliano porta all’esasperazione questa contraddizione e costruisce un personaggio tra il folle e il geniale, un manipolatore senza scrupoli con uno scopo onorevole ma mezzi alquanto discutibili. Vuole approfittare della sua posizione di generale per raggiungere la pace: ordisce un piano, trama contro il suo stesso esercito e il suo presidente, sacrifica i suoi uomini per salvare i selvaggi, i barbari da civilizzare – che in guerra significa sterminare, perché i selvaggi sono selvaggi, e la civiltà non fa per loro.
Il generale sa che l’odio genera odio, la guerra genera guerra e la sua missione nel mondo è rompere questa catena. La gerarchia è dalla sua parte, non lo può fermare il malumore dei soldati, né la ribellione di una di loro, tanto meno qualche imprevisto.
Lo ferma il nemico. Banalmente, freddamente, continuando la catena che il generale voleva spezzare e di cui è diventato un anello come tutti gli altri, uguale a quelli sono venuti prima di lui, a quelli che verranno dopo.
Il generale indaga la natura aggressiva dell’animo umano, la spietata e cieca difesa della propria identità di fronte all’altro, che non sappiamo definire se non con i nostri criteri di valutazione, in virtù di quello che lo differenzia da noi. Pretendiamo di avere sempre ragione e per affermarlo eliminiamo chi non è d’accordo.
Sotto una palma metallica che lo separa dalla realtà, dalla guerra reale, Ciro Masella è un generale instabile, vagamente schizofrenico, esaltato da sé stesso, impassibile di fronte al caro prezzo di vite umane che il suo piano prevede. Nessuno però gli presenterà il conto: morirà come muore un nemico, non da eroe ribelle.
Il motore del carro armato si accende, i soldati sono ben equipaggiati, la mira presa e i colpi in canna, ma qualcosa non funziona. Il testo rimane a metà tra una metafora e una prosa esplicita, e il nemico scappa prima che il fuoco lo raggiunga. Due colpi certo vanno a segno: i fermi immagine che richiamano le fotografie strazianti scattate nella prigione di Abu Ghraib a Baghdad e il monologo finale del capo dei selvaggi.
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IL GENERALE
produzione Pupi e Fresedde – Teatro di Rifredi | Uthopia
di Emanuele Aldrovandicon Ciro Masella, Michele Di Giacomo, Marzia Gallo
scena Federico Biancalani – suoni Angelo Benedetti
luci Henry Banzi/Fabio Massimo Sunzini
cura di Julia Lomuto – progetto grafico Luca Morganti
regia Ciro Masella