Al Teatro Metastasio di Prato torna un capolavoro assoluto della letteratura mondiale: “Il gabbiano” di Anton Cechov. Un racconto drammatico sulle illusioni decadute di un’umanità di fin de siècle, ancora vivo e attuale per questa umanità decadente nel nuovo millennio. Un classico sul senso del vivere, sul disagio esistenziale, sul rapporto tra arte e vita, tra successo e fallimento composto da uno dei drammaturghi più grandi, segnato da una vita dura e tormentata, da un’infanzia condizionata da un padre-padrone, dalla miseria, dalla malattia cronica della tisi che lo accompagnerà per tutta la vita, l’amore e il matrimonio celebrato in gran segreto a soli tre anni prima della morte. Uno scrittore che ha saputo essere delicato e malinconico, quanto glaciale e realista. Quando Il gabbiano fu rappresentato per la prima volta al teatro di San Pietroburgo nel lontano 1895 non fu accolto positivamente, anzi fu un insuccesso, incompreso. Le cronache narrano persino che un’attrice, intimorita dai fischi di una platea delusa, perse la voce e che Cechov, afflitto, lasciò il teatro a metà della rappresentazione. Fu poi l’anno successivo Kostantin Stanislavskij, regista teatrale russo inventore del celebre metodo di recitazione, a dirigere Il gabbiano al Teatro d’arte di Mosca, e in quell’occasione venne invece accolto e acclamato come già avrebbe meritato.
“Guardando il vostro teatro, bisogna essere dei mostri di virtù per amare, compatire, aiutare a vivere queste nullità, questi sacchi di trippa che siamo. A me pare che trattiate gli uomini con il gelo del demonio!” (Maksim Gorkij, lettera a Anton Cechov)
La regista e attrice Licia Lanera ha ideato la trilogia Guarda come nevica che include tre testi sulla neve, tre autori russi e tre generi letterari. Dopo il primo episodio Cuore di cane di Michail Afanas’evič Bulgakov, che col suo stile surreale e delirante denunciava una società proiettata verso trasformazioni disumanizzanti, con il secondo episodio Il gabbiano di Cechov fa raccontare il malessere sociale ed esistenziale di uomini sminuiti dai propri rimpianti o distorti dalle proprie illusioni e trapiantati in campagna, lontano da quella città intesa come fucina moderna del futuro.
“Ho sempre utilizzato il teatro come una sonda che entra nell’umano per svelarne le paure più grandi e gli istinti più feroci, in questo la letteratura russa è mia alleata. Ad un certo punto mi si è ghiacciato il cuore e ho iniziato a ricercare qualcosa che lo sciogliesse. È stato necessario analizzare il corpo umano, sviscerare ogni sua parte interna e esterna. E poi cadere negli abissi del battito cardiaco, affondare nelle viscere degli umani. Piedi per terra, lacrime in faccia, gengive scoperte, unghie e denti, mani desiderose di afferrare, uteri vuoti e uteri pieni, cuori, intestini e polmoni, pelle e peli. Tutto questo umano, così tremendamente umano, è nudo.” (Licia Lanera)
In questa storica traduzione de Il gabbiano fatta da Gerardo Guerrieri, storico drammaturgo e traduttore italiano, nonché sceneggiatore e collaboratore di grandi del cinema e del teatro come De Sica, Antonioni, Visconti e tanti altri, tutta la forza significante dell’opera è rivivificata, con la passione amara dell’ironia, con la profonda leggerezza che sa esaltare quelle domande fondamentali ancora e sempre incastonate nel classico originale.
“Per la prima volta faccio un classico, una regia da adulta, mi appresto a diventare grande a tutti gli effetti. E lavoro con otto attori! Inevitabile la riflessione su di me come donna e come artista. E quale commedia migliore per riflettere sul ruolo stesso che il teatro ha nella mia vita, in quella degli uomini, nella storia? Quale migliore occasione per parlare della vita che schianta i nostri sogni giovanili e ci fa diventare diversi da quello che pensavamo che saremmo diventati, quale testo migliore per parlare di grandi attrici dalla vita disastrata, scrittori senza carattere, giovani drammaturghi disperati e giovani attrici disilluse?
(…) Una messa in scena, per proseguire in questa strada che ho imboccato un po’ di anni fa, quella di un teatro che fonda sulla regia le sue radici più profonde; un teatro di regia dell’oggi, che si porta un pezzo di quello di ieri, nel gusto dell’analisi del testo, nel rapporto amorosamente esasperato con gli attori, ma lascia a casa i grandi allestimenti e una certa polverosa filologia.” (Licia Lanera)
C’è un’oscura simmetria in questo dramma silenzioso come un volo di un gabbiano verso la libertà, l’ultimo volo, che si scopre essere invece uno slancio verso la fine e la schiavitù in una vita impagliata, decisa da altri o dal disamore. Tutti i personaggi hanno un alter ego, sia fuori che dentro sé stessi. Il giovane Konstantin, che mai conoscerà davvero il successo, e l’affermato e maturo Trigorin, sono due facce della stessa oscillazione, della stessa parabola esistenziale. Una veduta sottile e malinconica sul fallimento, sulle illusioni e l’indifferenza dell’esistenza tratteggia Cechov in questo racconto senza fine e senza principio. Cristallizzazione di un’evoluzione impossibile anche tra la debuttante Nina, infatuata da un’idea fragile sul teatro, che sconterà a sue spese, e la consumata attrice Irina, madre di Konstantin, carica di un passato che la soverchia col suo inevitabile senso del tempo e inguaribile cinismo. Oscura corrispondenza anche tra ciò che accade in scena e ciò che la stessa scena nasconde attraverso personaggi assenti, visto che Cechov i fatti più rilevanti o magnetici, da un punto di vista drammaturgico, lì faceva accadere solamente nelle parole raccontate dai personaggi, uno su tutti il tentato suicidio di Konstantin tra l’indifferenza e la morte partecipazione dei presenti, mentre in questo adattamento tutto si vede e tutto è celato in uno stato evanescente, come la neve che ricopre funerea ogni gesto e ogni parola, in un incanto che sa di sogno e di morte. Perfino la campagna col suo lago stregato, onniscente personaggio muto del dramma in cui si rispecchiano e amplificano i sentimenti inespressi dei personaggi, in questa messinscena rappresentato dal dipinto di Claude Lorrain “paesaggio con la ninfa Egeria” sospeso e obliquo come uno sguardo annebbiato, ha un alter ego simmetrico nella città assente, la distanza tra le due come l’abissale forbice che c’è tra il successo e il fallimento di un’esistenza, tra l’insondabile legame che sussiste tra arte e vita. E proprio nelle parole di uno dei personaggi, più logorati dal disincanto, che si illumina questa dialettica interna al dramma, presente in tutti i personaggi e le loro sfumature: «voglio dare a Kostja il soggetto per una novella. Dovrà intitolarsi così: L’uomo che ha voluto […] Da giovane volevo diventare un letterato e non lo sono diventato; volevo diventare un elegante parlatore ed ho sempre parlato in modo da far rabbia. […] Volevo prender moglie e non l’ho presa; volevo viver sempre in città ed ecco che finisco la mia vita in campagna; ecco tutto». L’arte diventa drammaticamente vita, e viceversa, abbracciando finzione e realtà, aspirazioni e delusioni, parole e silenzio. La struggente canzone di Bruno Martino riecheggia a scandire questa consapevolezza di costante trapasso, tra l’estate dell’esistenza e i suoi inverni. Come, infine, dice Nina, ninfa di campagna decaduta nell’umanità cittadina: «adesso, Kostja, io so, io comprendo che nella nostra opera, sia essa di scrittore o di attore, l’importante non è la gloria, non il lustro, non ciò che sognavo, ma saper soffrire». Ancora una volta il teatro ama, soffre e parla solamente a sé stesso, perciò misteriosamente illumina la realtà dello spettatore, che osserva ignaro ed estasiato questo volo dalla scena del rappresentabile verso l’ignoto di ciò che la vita nasconde. Un teatro nel teatro, una rappresentazione della e nella rappresentazione, che svela le illusioni sul e del teatro. La messinscena fallimentare di Konstantin, con tutte la sua smania rivoluzionaria riguardo al linguaggio teatrale, sempre irretito nella routine o nel pregiudizio, è lo specchio dell’accadere irrisolto della vita, come sola tragica rappresentazione. Il suo piccolo teatro, rimasto vuoto e popolato da soli spettri o ombre, è lo specchio della vita come fredda rappresentazione senza la possibile realtà di un amore senza compromessi, sogno infranto di gloria e soprattutto di umanità.
“Bisogna rappresentare la vita come ci appare nei sogni, non com’è o come dovrebbe essere.” (Anton Cechov)
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di Anton Cechov
adattamento e regia Licia Lanera
con Vittorio Continelli, Mino Decataldo, Alessandra Di Lernia, Jozef Gjura, Marco Grossi, Licia Lanera, Fabio Mascagni, Giulia Mazzarino
musiche originali Qzerty
produzione Compagnia Licia Lanera, Teatro Metastasio di Prato, TPE – Teatro Piemonte Europa
La trilogia Guarda come nevica include tre testi e tre spettacoli sulla neve, tre autori russi e tre generi letterari. 1. Cuore di cane di Bulgakov 2. Il gabbiano di Cechov 3. Le poesie di Vladimir Majakovskij