testo e regia Enzo Moscato
con Cristina Donadio, Lalla Esposito, Anita Mosca, Giuseppe Affinito
luci Cesare Accetta
musiche Claudio Romano
scena Clelio Alfinito
costumi Daniela Salernitano
consulente Lingua dei Segni Vincenza Modica
fonica Teresa Di Monaco
organizzazione Claudio Affinito
produzione Teatro Stabile di Napoli – Teatro Nazionale, Compagnia Teatrale Enzo Moscato/Casa del Contemporaneo
Premio Ubu 2018 alla carriera assegnato all’autore, attore e regista ENZO MOSCATO
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Si accendono pian piano le luci: candele, candelotti e lumini davanti alla statuina della Madonna. Chiesa? No. Luogo di culto? No.
È un basso napoletano con la porta aperta sul vicolo. Le scale non ci sono nel basso napoletano, ma qui metaforicamente servono per salire in alto nella visione “cercata e costruita” del miracolo a tutti i costi come giustificazione e pretesto di una sessualità negata, deviata, nascosta e paludata da pregiudizi e credenze.
Il buongiorno si vede dal mattino, quando tutto comincia con un paio di mutande di un tale Toritore di cui molto si parlerà ma che farà la sua entrata (trionfale?) solo alla fine. Annina, la sorella mediana le bacia, le odora, le venera come reliquia preziosa, le nasconde in tasca. La sorella più grande Elisabetta ricopre il ruolo di capo di casa, a cui obbedire ma da sbeffeggiare e la terza, la piccola Maria, muta, ma non sorda diventa la vittima delle angherie delle sorelle, ma al contempo la predestinata. Elisabetta, Anna e Maria tre sorelle, tre figure importanti nella gerarchia religiosa: la vergine, la madre e la cugina.
Linguaggio in vernacolo stretto, per cui si perde a tratti il significato, che riporta ad una Napoli di molto tempo fa. Il vicolo è il mondo che può accoglierti nelle sue amorose braccia di vicinato, ma può anche isolarti se finanche il parroco non ti da ascolto, anzi ti scomunica.
La storia si snoda in due tempi e i rapporti fra le tre sorelle si intrecciano con accenni al mondo di fuori, mentre il finale vuole sorprendere e forse , chissà, ci riesce.
Composto nel 1983, è uno dei testi più rappresentativi di Moscato, dedicato all’amico drammaturgo prematuramente scomparso Annibale Ruccello.
Preceduto da un’aura leggendaria – cominciata già con la sua prima messa in scena, avvenuta circa quarant’anni or sono, nell’ormai lontano marzo del 1984 – venerdì 10 e sabato 11 gennaio 2020 al Teatro Ghirelli di Salerno arriva Festa al celeste e nubile Santuario di Enzo Moscato (che per la seconda volta in pochi mesi, dopo “Modo minore” l’anteprima di stagione dello scorso ottobre, torna davanti al pubblico di Salerno).
Il pubblico numeroso ha applaudito con foga mostrando di apprezzare e gradire.
Viene forse da chiedersi il perché.
Dissacrare e rovistare nel torpido che sicuramente c’è, a chi o a cosa giova?
Fotografare la realtà? Non è assolutamente attuale. L’anacronistico, cioè il passato, seppure recente può definirsi o spacciarsi per classico? I dubbi sono legittimi.
Il teatro intessuto con quella materia di cui son fatti i sogni è ormai chiuso in un cassetto?
Forse sarebbe il caso di riaprire quel cassetto.