Le Fonderie Limone di Moncalieri è, a mio avviso, il più bel teatro torinese. Immerso in uno spazio verde, tributo ad un passato industriale ancora visibile, ha una grande sala e una capacità di offerta operativa molto ampia. Dalle cucine per gli ospiti che usufruiscono delle camere da letto (messe a disposizione per chi partecipa a seminari, incontri e non è della zona), alle molte sale disponibili per associazioni, anche teatrali. Insomma è un realtà forse unica nel suo genere. È qui che abbiamo visto un Ovadia nuovo, particolare e un po’ diverso da quello solito. È sempre un fantastico affabulatore, ricco di citazioni ed estremamente ironico ed istrionico. La battuta graffiante e mordace si è fatta più precisa, più netta rispetto agli spettacoli precedenti anche se il personaggio rimane lo stesso: Simkha Rabinovich.
In questo spettacolo, “Dio Ride – Nish Koshe”, Moni Ovadia mi sembra prendere innanzitutto una posizione contro i muri, in generale partendo da quello sacro per antonomasia, quello di Gerusalemme, e cioè “Il Muro del Pianto” per inserirsi nella diatriba, anche recente, che vuole antisemiti coloro che criticano Israele. Ricorda che chi oggi costringe un popolo a non vivere, dimentica di essere stato a sua volta vittima e perseguitato per la sua appartenenza ad una minoranza. E lo fa, come sempre, con la sua grande capacità di narratore ed affabulatore oltreché cantante e danzatore.
Quando fa parlare i suoi personaggi, siano essi rabbini, semplici frequentatori della comunità ebraica o non ebrei, usa una ricca gamma lessicale e mimica che arricchisce anche il non detto, ti rendi conto che c’è sempre una profondità a volte nascosta. E si ride molto, sempre.
Pubblico da grandi occasioni, d’altronde è ormai diventato così popolare anche in televisione. L’ho visto sposare due volontari a Bologna in una funzione non religiosa, che corre quasi l’obbligo di non perdersi un suo intervento. Ha la voce intonata e giusta per creare atmosfere che vanno da feste popolari a momenti di grande disperazione. Anche la sua capacità di ballo merita attenzione, pur non possedendo un fisico da ballerino della Scala, si muove in modo armonioso ed è sempre convincente in mezzo ai suoi “maestri” di musica.
Il pubblico, molto numeroso e molto attento, ha dimostrato con i frequenti e lunghi applausi, di apprezzare e divertirsi. Musicisti davvero bravi e teatrali hanno riempito gli spazi con notevole presenza fisica dando supporto al racconto non solo con la loro musica. Ovadia ha terminato ricordando il suo amore verso Torino, città che ama e che ricorda essere stata molto importante per la sua formazione. Ha voluto sottolineare che la prolungata assenza dai teatri torinesi non era dovuta alla sua volontà. E chi vuole capire… capisca.
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«Una generazione fa vi raccontavo storie di esilio, io che in esilio sono da sempre, alla ricerca della mia anima», ricorda Moni Ovadia, che torna a teatro a un quarto di secolo da Oylem Goylem nei panni del suo alter ego Simkha Rabinovich, con la inseparabile carovana errante di musicanti klezmer. Allora sei vagabondi, cinque musicisti e un narratore, approdavano in palcoscenico a bordo di una zattera. E Simkha raccontava le storie e cantava le canzoni del popolo eletto ed esiliato: canti tristi e allegri, luttuosi e nostalgici, nati per vivere le feste, le celebrazioni e i riti di passaggio del popolo che «illuminò e diede gloria alla Diaspora». Un mondo fatto di comunità grandi, piccole e minuscole, riunite attorno a una tradizione sempre viva e a una vertiginosa spiritualità.
Dopo venticinque anni di erranza, con il consueto registro che mescola umorismo e tragedia, Simkha Rabinovich e i suoi compagni di strada proseguono il racconto di quel popolo fatto di storie e canti, storielle e musiche, piccole letture, citazioni e riflessioni. Una narrazione piena di colore, tra battute fulminanti e attacchi veementi (contro chi costruisce muri, come la «prigione a cielo aperto di Gaza»). Uno spettacolo disperatamente ottimista, nello slancio verso un mondo di giustizia e di pace. Il titolo, Nish koshe, in yiddish significa: così così. «Eccola qui – chiosa Moni Ovadia – la condizione umana».
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Moni Ovadia
Nasce a Plovdiv in Bulgaria nel 1946, da una famiglia ebraico-sefardita.
Dopo gli studi universitari e una laurea in scienze politiche ha dato avvio alla sua carriera d’artista come ricercatore, cantante e interprete di musica etnica e popolare di vari paesi. Nel 1984 comincia il suo percorso di avvicinamento al teatro, prima in collaborazione con artisti della scena internazionale, come Bolek Polivka, Tadeusz Kantor, Franco Parenti, e poi, via via proponendo se stesso come ideatore, regista, attore e capocomico di un “teatro musicale” assolutamente peculiare, in cui le precedenti esperienze si innestano alla sua vena di straordinario intrattenitore, oratore e umorista. Filo conduttore dei suoi spettacoli e della sua vastissima produzione discografica e libraria è la tradizione composita e sfaccettata, il “vagabondaggio culturale e reale” proprio del popolo ebraico, di cui egli si sente figlio e rappresentante, quell’immersione continua in lingue e suoni diversi ereditati da una cultura che le dittature e le ideologie totalitarie del Novecento avrebbero voluto cancellare, e di cui si fa memoria per il futuro.
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Fonderie Limone di Moncalieri
14 – 19 gennaio 2020
DIO RIDE NISH KOSHE
di e con Moni Ovadia
con le musiche dal vivo della Moni Ovadia Stage Orchestra: Maurizio Dehò, Luca Garlaschelli, Albert Florian Mihai, Paolo Rocca, Marian Serban
regia Moni Ovadia
luci Cesare Agoni, Sergio Martinelli
scene, costumi ed elaborazione immagini Elisa Savi
progetto audio Mauro Pagiaro
CTB – Centro Teatrale Bresciano / Corvino Produzioni