Gabriele Lavia conclude la sua trilogia dedicata a Pirandello – dopo aver portato in scena “Sei personaggi in cerca d’autore” e “L’uomo dal fiore in bocca… e non solo” – con l’ultima grande opera del drammaturgo siciliano, I giganti della montagna, andato in scena all’Arena Del Sole, di cui Lavia cura la regia e indossa i panni di Crotone, personaggio chiave di tutta la narrazione.
“I giganti della montagna” è un testo di enorme rilevanza proprio in quanto racchiude come un distillato, tutto il pensiero Pirandelliano, rappresenta una sorta di testamento poetico del drammaturgo e, essendo l’ultimo lavoro, in qualche modo è anche il più evocativo, forse proprio perché incompiuto. Un finale aperto che rappresenta la speranza, la possibilità dell’arte di resistere alla morte proprio perché, anche se il poeta non c’è più, l’Opera vive anche dopo di lui e suo malgrado, perché essa ha vita propria e non può morire.
La messa in scena pensata da Lavia è colossale sia per l’imponente scenografia, sia per il numero di attori coinvolti (più di venti) che hanno animato il palcoscenico ma anche la platea con continue incursioni, molto accattivanti, tra il pubblico in sala. Per quanto riguarda la regia si è scelto di ambientare la narrazione non presso la villa “la Scalogna” come da indicazioni pirandelliane ma in un fatiscente teatro, opera di Alessandro Camera, un rudere barocco ricco di marmi e bassorilievi che racchiude tutti i fasti e la bellezza del teatro ma diroccato, con i suoi palchi svuotati e traballanti, per accentuare il senso di decadenza, il lento logorio dell’arte, del teatro, portando agli estremi il valore simbolico dell’intera opera e la riflessione relativa alla marginalità della cultura teatrale nella nostra epoca. Riflessione già ampiamente contenuta nel testo e che Lavia vuole riproporre come un’iperbole, anche nella messa in scena, insistendo sulla verità dell’arte e su quanto tutta quella fantasia rappresenti, in fondo, la vera salvezza dell’umanità.
Molto affascinante i contrasto visivo tra gli Scalognati, questa sorta di fantasmi, apparizioni, rese ancora più affascinanti nella seconda parte quanto diventano dei fantocci inanimati e la compagnia di attori approdata nella villa. Contrasto che permette di capire immediatamente le due formazioni, grazie soprattutto ai costumi, molto belli, di Andrea Viotti, colorati, bizzarri e vivaci per il gruppo degli scalognati; mesti e logori per la compagnia, a suggello anche delle fatiche e le insidie che hanno dovuto subire prima di arrivare lì.
La compagnia di attori è molto variegata e ben assortita. Elsa eccede nel suo essere esasperatamente teatrale, ma non si può ammonire per questo, visto che il personaggio lo richiede e Pirandello e stato pedissequo nel seguire le indicazioni e il testo del Maestro Pirandelli. Altri personaggi, come il Conte, si perdono nell’immensità del contesto e degli altri protagonisti. Senza dubbio la cosa evidente è che tutto ruota attorno all’interpretazione di Gabriele Lavia che con il suo Cotrone cattura la scena e “opacizza” gli altri protagonisti. Difficile perdere una sola parola quando lui è in scena, sia per la sua densità espressiva che per lo spessore del testo a lui riservato.
E poi ci sono i giganti, l’opposto della grazia, uomini del fare impoveriti di anima, rappresentano un mondo in cui viene a dominare la grettezza, la volgarità, la bruttura, tutto ciò che non può capire la Poesia e proprio per questo sono solo citati ma mai rappresentati, quasi come se non fossero degni di entrare in questo bellissimo gioco del teatro, troppo serio per essere compreso da chi ha dimenticato la bellezza, la gentilezza e la purezza d’animo custodite in quello scrigno chiamato palcoscenico.
“Io ho paura! ho paura!” sono le ultime parole pronunciate nell’udire la cavalcata dei Giganti, nonché le ultime scritte da Pirandello. Parole dense di significato, pronunciate le quali non serve aggiungere altro.