“Le parole sono pietre”, diceva Carlo Levi. Quando la poesia come etica incontra la resistenza come pratica anche un libro può farsi di pietra. Così, almeno, Gianluca Guidotti ed Enrica Sangiovanni, autori, attori e produttori indipendenti di lavoro culturale, leggono e sentono Teatro di Marte – Il Cimitero militare germanico del Passo della Futa. È il primo volume pubblicato nella collana leucò da archiviozeta editrice, nata in seno alla loro compagnia di ricerca, Archivio Zeta. «Questo libro arriva da un vuoto – afferma Guidotti – a cinquant’anni dalla fondazione nessuno, né in Germania, né in Italia, aveva mai fatto uno studio su questo cimitero e sul suo architetto, Dieter Oesterlen. La nostra impresa teatrale si è trasformata pure in editoriale per la necessità di avere un approfondimento sul nostro luogo principale di creazione artistica. È un “libro di pietra” – precisa – perché è stato un lavoro pesante, durato due anni, siamo arrivati fino agli archivi a Berlino e a Kassel: è quasi un’opera scolpita, più che un libro di carta».
Curato da Elena Pirazzoli, il volume si compone dei saggi scritti da Luca Baldissara, Giacomo Calandra di Roccolino, Carlo Gentile, Sofia Nannini, Birgit Urmson, con un intervento degli stessi Gianluca Guidotti ed Enrica Sangiovanni, e quindici anni di spettacoli ogni estate alla Futa nelle foto di Franco Guardascione. Un viaggio nelle pagine di una storia che pesa: il cimitero lungo la statale che connette Bologna e Firenze conserva i resti di 30.654 militari tedeschi caduti nel Centro e nel Nord Italia negli ultimi anni della Seconda guerra mondiale. «Abbiamo bisogno di materiali pesanti – continua Guidotti – intendo proprio parole pesanti come dei blocchi di pietra serena che contrastino il silenzio. Negli anni abbiamo creato una specie di arcipelago di autori portati con noi lassù, tra cui Eschilo, Sofocle, William Shakespeare, Fëdor Dostoevskij, Karl Kraus, Pier Paolo Pasolini, Julio Cortázar. È come se ci avessero fornito in una cava – ragiona – il materiale da costruzione del nostro lavoro. Non sapremmo fare altrimenti che con il loro spessore e con la loro profondità di campo».
Una vela pietrificata oppure una scheggia di granata si erge in cima a una montagna, culmine dell’immensa spirale di tombe del Cimitero militare germanico, sommità aguzza come i cocci di bottiglia di Meriggiare pallido e assorto di Eugenio Montale. Nella cripta sottostante la parola che ricorre di più, insieme a “riposare”, “dolore”, “consolazione”, è proprio “silenzio”. «Tutto il nostro lavoro, benché fondato sulla parola, tende al silenzio – spiega Enrica Sangiovanni – rispettiamo l’insegnamento che ci dette Elie Wiesel quando lo incontrammo per La notte nel 2001: “Prendiamo molto silenzio, qualche parola e parliamo”. Alla Futa – aggiunge – abbiamo imparato a recitare all’aperto, in modo da accordarci al respiro della natura, a partire dalla spinta del vento, che cambia ogni giorno. Lottiamo per pronunciare ogni nostro verso. Quando parliamo di “teatro di resistenza in montagna” intendiamo una resistenza anche fisica».
Si tratta di un “confino” cercato, voluto da Archivio Zeta dentro quello che Pirazzoli, nell’introduzione a Teatro di Marte, chiama “il luogo dell’oblio”. «È molto isolato – nota Sangiovanni – perfino rispetto al comune di appartenenza, che è Firenzuola. Continua a essere vissuto come estraneo, lì lo chiamano “il cimitero dei tedeschi”. Non è sentito come parte, come bene della comunità. È un ulteriore esilio, anche all’interno dello stesso territorio nel quale è incastonato. Ci siamo autoconfinati – prosegue – per condurre una ricerca contemporanea sulla parola e questa ricerca deve confrontarsi sempre con il vuoto del suono, il baratro del silenzio e con la paura a cui il silenzio ci può portare».
Il teatro detto e fatto come atto profondamente politico di cittadinanza e di responsabilità ha svelato che quel cimitero, in realtà, non appartiene solo a Firenzuola oppure alla vicina Monghidoro: è di tutti, è universale. «È l’Europa, sta lì, ma, in qualche modo, rappresenta il Novecento – commenta Gianluca Guidotti – una volta è venuto Enrico Pieri, uno dei sopravvissuti di Sant’Anna di Stazzema. Non conosceva il cimitero. Quando entrò, disse una frase per noi molto importante: “Qui potrebbero esserci sepolti anche coloro che hanno fatto l’eccidio di Sant’Anna, ma sapere che hanno trovato sepoltura mi fa essere fiero di essere europeo. Sento che l’Europa è anche questo”. I corpi non hanno colore – riflette – perciò cerchiamo di traslare quella morte verso altre morti».
La prima volta che sono entrati nel 2002 hanno pensato subito alla tragedia greca, a Eschilo e a I Persiani. «Abbiamo sentito la necessità – ricorda Guidotti – di ripartire dalle radici della cultura occidentale, teatrale, ma anche etica e politica. Tutto questo coincide con un testo: I Persiani di Eschilo. Perché è il più antico giunto fino a noi, il suo autore fu anche militare, ed è l’unico che si riferisce a un fatto storico. È stato l’atto fondativo del nostro percorso nel Cimitero militare germanico – specifica – un marchio indelebile. Cerchiamo sempre dei testi che possano portarci in una dimensione “sacra”, in un’esperienza rituale, che è qualcosa di rimosso dalla nostra quotidianità, priva com’è di qualsiasi legame con il mistero, con la religione e con il rito».
Altrettanto rimossa è la misura di quanto il nostro presente si regga sulla tragedia del futuro mandato al macello. Alla Futa non sono sepolti i grandi generali, ma migliaia di giovani e giovanissimi. «Nel 2018 – interviene Enrica Sangiovanni – abbiamo fatto Antigone / Nacht Und Nebel in cui abbiamo accostato i trentamila della Futa con i trentamila morti nel Mediterraneo. Il mare è venuto in montagna, si sentivano i gabbiani, si aveva la percezione di uno straniamento, di un disorientamento, di una perdita dell’origine delle cose. Abbiamo chiesto a nostro figlio Elio, che ha quindici anni, di recitare – va avanti – i versi finali dello spettacolo, perché lui ha la stessa età della media dei ragazzi seppelliti. È la cosa più impressionante e non ce ne rendiamo conto: siamo in un cimitero di bambini, come viene detto nel libro da Carlo Gentile. Bambini con l’uniforme, pronti a essere uccisi e a uccidere in modo brutale».
Dunque, il rito proposto da Archivio Zeta è il tentativo di restituirci un presente che possa tornare a diventare futuro, elaborando le ferite, i lutti che abbiamo preferito relegare in montagna e dimenticare. «C’è una disuguaglianza e lassù è evidente – chiarisce Sangiovanni – il teatro, secondo me, è l’unico strumento che abbiamo per confrontarci con la morte, prima di affrontarla in prima persona. Al pari della vita, ha un inizio, uno svolgimento e una fine. Quindi – considera – non mi sento di profanare il cimitero, anzi, penso che non avremmo potuto trovare un luogo più adatto di questo dove parlare di un essere umano che, come sentenzia Kraus, non altro modo che la strage per esprimere se stesso».
L’autore austriaco destinò Gli ultimi giorni dell’umanità, con le sue duecentonove scene più un preludio e un epilogo, a un “teatro di Marte”. Gianluca Guidotti ed Enrica Sangiovanni l’hanno trovato nel Cimitero militare germanico del Passo della Futa. «Venire in quel luogo significa porsi delle domande: è questa – scandiscono – la responsabilità che abbiamo e sollecitiamo negli spettatori. La nostra proposta comprende un viaggio, una durata e una difficoltà: non facciamo spettacoli teatrale canonici, il pubblico si ritrova a camminare per due ore, a sedersi per terra, a non avere, insomma, la sicurezza di una sala».
Un tale ritiro si è dimostrato fonte di una straordinaria apertura: l’architettura ideata da Dieter Oesterlen si è mutata nello specchio della storia come contemporaneità, quanto della contemporaneità come storia. «Portiamo avanti quasi un lavoro in simbiosi con lo spazio. Per questo abbiamo cominciato a chiederci chi lo avesse costruito così e perché. Non sappiamo – concludono Guidotti e Sangiovanni – quanto noi ci siamo adattati al suo essere comunque aspro e quanto lui, invece, si adatti a noi ogni anno. Perché effettivamente sembra quasi che il cimitero sia disposto ad arrotondare alcune sue asperità per accoglierci».