con Chiara Baffi e Alessandra Pacifico Griffini
Testo della drammaturga kosovara Doruntina Basha
messo in scena da Carlo Sciaccaluga
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Il dito si è aggiudicato il Premio della Fondazione Heartefact quale Miglior testo drammatico di impegno dell’area ex jugoslava promosso in collaborazione con il Centro Qendra Multimedia di Prishtina
Va in scena in prima nazionale al Ridotto del Mercadante – giovedì 20 febbraio con repliche fino a domenica 1 marzo – Il dito, testo di Doruntina Basha nella traduzione italiana di Elisa Copetti e la regia di Carlo Sciaccaluga, che firma anche i costumi. Ne sono interpreti, rispettivamente nei ruoli della madre e della moglie, le attrici Chiara Baffi (Zoja) e Alessandra Pacifico Griffini (Shkurta).
Le scene dello spettacolo sono di Vincenzo Leone, le musiche di Andrea Nicolini. La produzione è del Teatro Stabile di Napoli-Teatro Nazionale.
Il dramma prende forma nel 2011 a partire da un lungo progetto di ricerca sulle storie delle famiglie che durante la guerra in Kosovo del 1998-1999 hanno avuto un famigliare scomparso. La ricerca parte dal fatto che la maggior parte delle famiglie albanesi kosovare ha una persona cara scomparsa, uomini soprattutto, prelevati dalle loro case e condotti in luoghi sconosciuti da militari e paramilitari.
A partire dalle storie delle famiglie intervistate, l’autrice, la 39enne Doruntina Basha, si confronta con il tema delle sparizioni forzate, e raccoglie un altro materiale prezioso: storie di donne che raccontano la propria vita nella famiglia contemporanea. Ne ricava un’indagine sulla condizione femminile in una società profondamente ancorata alla tradizione che usa le sue norme come strumenti per elaborare le sparizioni.
Basha costruisce così un testo stratificato nel quale due sono le protagoniste: Shkurta, la nuora, e Zoja, la suocera. Le due donne convivono, sole, in attesa che il marito dell’una, e figlio dell’altra, ritorni a casa. Cucinano il suo piatto preferito, ciascuna convinta di essere l’unica a conoscerlo veramente. Shkurta è irrequieta, mal sopporta la suocera e i suoi maltrattamenti; Zoja porta il fardello di questa nuora indesiderata da custodire fino al ritorno del figlio scomparso dieci anni prima, in una sera come quella.
«Raccontandosi i mondi ideali in cui vorrebbero vivere – sottolinea Carlo Sciaccaluga – Zoja e Shkurta evocano, creano realtà in cui il dolore non esiste. Ma il dolore è necessario, la barbarie dell’uomo va guardata in faccia, non va cercata una spiegazione in fatti che una spiegazione non possono trovare. La vita è separazione, assenza di senso, si può solo essere ciò in cui si crede, come scriveva Cechov, ma mentre la vecchiaia dilaniata non può accettare la mancanza di una ragione, la gioventù ferita ha il diritto di vivere, di rinegoziare il futuro».
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