Per strada, solo un mese fa, aveva debuttato al Teatro Niccolini di Firenze e per l’occasione avevo avuto la fortuna di recensire e apprezzare il promettente talento dell’autore e attore, Francesco Brandi, che ha già lavorato per cinema, televisione e teatro con personaggi di calibro, tra cui Nanni Moretti, Paolo Virzì e Pupi Avati. Qui trovate la recensione dello spettacolo: https://www.teatrionline.com/2020/03/per-strada-5/
Ricordiamo entrambi la tensione palpabile di quelle ore, frangente limare tra passato e futuro della storia dell’umanità, in cui si decretava la chiusura temporanea dei teatri del nostro paese.
Il pubblico rado, il silenzio nella bellissima sala semivuota e il coraggio della messa in scena in un tempo, credo, indimenticabile per tutti i presenti, ancora, forse, increduli e non completamente coscienti delle profonde criticità che avremmo affrontato, ha dato particolare eco alla rappresentazione.
Questa intervista vuole rintracciare i fatti successivi a quanto accaduto e testimoniare un raccordo tra quel momento e il presente, raccontando come il protagonista sta affrontando effettivamente la quotidianità, secondo quali stati d’animo e progettualità dedicate al futuro.
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Francesco Brandi, un mese è trascorso da quando, il 4 Marzo 2020, si è esibito al Teatro Niccolini di Firenze. Poche ore dopo i teatri italiani hanno abbassato i sipari nell’attesa della fine della pandemia che sta investendo ancora il pianeta. Ci racconta come è cambiato ai suoi occhi il mondo da quella sera?
Sognavo da anni il mio debutto al Niccolini. Arrivare a Firenze, in quel teatro, con un mio testo è una cosa a cui ambivo da sempre. Ovviamente immaginavo un’atmosfera completamente diversa, ma ho comunque cercato di vivere e di far vivere alle poche persone in sala una serata storica. Lo è stata, secondo me, comunque. Dal giorno dopo, è cominciato un cambiamento che è in atto e che non riesco davvero a decifrare. A volte mi fa paura, a volte invece m’incuriosisce. Io sono cambiato, nel senso che mi sento vulnerabile e fragile: piango spesso e spero che il mio paese riesca a superare presto questa maledetta emergenza sanitaria.
Per strada, di cui è autore oltre che interprete, aveva raccontato le atmosfere e i sentimenti dei trentenni di oggi. Quali sono le prospettive a cui adesso è possibile guardare per i neo-adulti di questa generazione? Sente mutare, in qualche modo, le loro responsabilità effettive nei confronti delle sorti del pianeta?
Quando ho scritto Per strada, non ho pensato a descrivere un’età ma delle persone. Ovviamente ho parlato di quello che conosco meglio, che mi è più vicino, quindi i personaggi e i riferimenti sono quelli della mia generazione. Credo, infatti, che l’assunzione di responsabilità collettiva debba cominciare da prima dei 30/40, molto prima, direi dall’infanzia. Ed è una questione di educazione, indole e fortuna. Spero che questa pandemia, almeno, insegni qualcosa a tutti in questo senso, soprattutto a chi ci rappresenta. Vedi, io non sono mai stato attratto dai movimenti antipolitici, anzi, ho sempre votato, e sempre la stessa cosa, credo nella politica, nel processo della democrazia rappresentativa, ma penso che la classe dirigente abbia offerto ben pochi esempi da seguire in questi anni. Ecco, se il coronavirus offre al singolo la possibilità di un esame di coscienza, lo stesso virus obbliga la classe dirigente nel suo insieme, fin da subito, non a un esame di coscienza, ma proprio a un’inversione di rotta nello stile, nel linguaggio e nella visione collettiva delle scelte, che di base, non possono più lasciare indietro nessuno. Se così non sarà, sarà un disastro.
La vita a casa è un momento per riformulare i piani, i progetti, le priorità. Come sta affrontando questa nuova dimensione di vita a livello temporale e personale?
Devo confessarti che io sono un tipo casalingo e abbastanza solitario anche senza virus. Vivo da sempre la casa come una tana. Leggo, scrivo, guardo film, ascolto musica, gioco alla Play, faccio più o meno quello che faccio sempre quando non sono in teatro. Certo, mi manca la gente, andare in giro, studiare un po’ la meravigliosa umanità che siamo, andare a cena fuori, la mia vera passione. Però passo più tempo con mia figlia, che ha 6 anni, e ti posso assicurare, che mi sta offrendo dei momenti incredibili di divertimento, gioco, ma anche malinconia e riflessione. Una tenerezza così forte non pensavo di provarla mai nella mia vita.
Lei vive in una regione profondamente colpita dal virus e può forse testimoniare con più aderenza alla realtà quello che sta accadendo. Cosa sente di dire al paese, alle cariche politiche e anche ai colleghi del mondo dello spettacolo?
Ti scrivo dal mio studio, nella casa dove sono cresciuto a Legnago, in provincia di Verona, in realtà. Il giorno dopo la replica al Niccolini, il 5 marzo, sono venuto qui a riprendere appunto mia figlia, che era dai nonni. Quel fine settimana, poi, hanno chiuso tutto e io non mi sono più mosso, perché il mio spostamento non era necessario. È un’abitudine per me e la mia famiglia venire qui ogni fine settimana. E questa abitudine in qualche modo ci ha aiutato. La casa qui è più spaziosa e in Veneto le cose vanno meglio che in Lombardia. Inoltre in un paese piccolo come il mio, la situazione è abbastanza sotto controllo. Le file ai supermercati non ci sono, o sono molto rare, ci conosciamo tutti e, pur nella distanza, questo ha una sua incidenza. Mi manca però Milano e ti dico la verità: mi sono spesso sentito in colpa nei confronti di una città che mi ha dato tutto, nell’esserle distante in questo momento.
L’Italia è un paese forse da ricostruire, ora che sono totalmente in luce le sue fragilità sociali, economiche, sanitarie. Come desidera immaginare il futuro, trascorso questo difficile presente?
L’Italia è un paese meraviglioso. Pur essendo molto distante dalla retorica nazionalista e dei confini, io ho sempre vissuto un enorme orgoglio di appartenere a questo paese. Al contrario di molti miei colleghi, non ho mai avuto nessuna ambizione esterofila, nessuna suggestione di quel tipo. Il mio sogno è essere popolare, nel senso stretto etimologico del termine, qui, dove c’è il 70% del patrimonio artistico di tutto il mondo. Ecco, non mi è mai importato nulla di Broadway, degli oscar, il mio sogno è sempre stato uno solo e molto più ambizioso e mitomane: essere parte di quel 70%. Questo per dire che non avevo bisogno di una pandemia per celebrare l’Italia e il suo carattere, e che questo periodo serva a tutti d’esempio e di monito, per ricordarci chi siamo e cosa siamo capaci di fare. Siamo produttori naturali, spontanei, di forza, ingegno e bellezza. Non facciamolo solo quando c’è un’emergenza sanitaria, nel futuro facciamolo sempre, ogni giorno, e con un desiderio enorme e centrale di coinvolgere tutti, di essere inclusivi, senza lasciare indietro nessuno. Cerchiamo di allontanarci dal tutti contro tutti che ci ha reso enormemente più brutti.
Nessuno meglio di un autore teatrale può raccontare i tempi in cui vive. Vorrei potesse dar voce alle sue riflessioni su questa pagina, per arrivare oltre il confine della sua stanza, a tutte le stanze dei lettori con una riflessione. Cosa sente di voler dire a chi può leggerla ora?
Penso che ci saranno molti libri, molte canzoni, molti film e testi teatrali su questo periodo. Io sto scrivendo pensando al dopo. Cambieranno molte cose, secondo me, è ovvio, ma non la voglia delle persone di innamorarsi, di odiarsi, di unirsi, di tradirsi, di vivere i sentimenti insomma. Io ho sempre scritto di sentimenti e continuo a farlo, sono l’unica cosa che mi rassicura e che mi riguarda davvero. Con i tuoi lettori voglio condividere però il mio amore per Firenze, per il Niccolini, spero di tornarci presto, quando potremmo tutti insieme dimostrarci, appunto, tutti i sentimenti di cui siamo capaci.
Grazie.
Ines Arsì