Ferruccio Soleri, diplomatosi all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica di Roma, debutta al Piccolo Teatro di Milano nel 1957 e interpreta, dal 1959, Arlecchino servitore di due padroni nel ruolo di protagonista, entrando nel libro del Guinness dei primati per la più lunga performance di teatro, di ben 2283 rappresentazioni, nello stesso ruolo. Attore di immenso talento espressivo, ha ricevuto, nel 2006, il Leone d’oro alla carriera, è ambasciatore dell’Unicef e Grande Ufficiale della Repubblica Italiana.
Cesare Molinari, in Teatro e antiteatro dal dopoguerra ad oggi, racconta bene come Arlecchino servitore di due padroni divenne, nel tempo, un monumento assoluto del teatro, grazie al prezioso lavoro di recupero filologico della Commedia dell’Arte operato da Giorgio Strehler, attraverso lo studio della maschera e la scelta di attori interpreti in grado di rievocare le antiche gestualità di Arlecchino. Soleri riesce ad incarnare questo personaggio con profonda aderenza ed una competenza espressiva unica.
Lo abbiamo intervistato per voi ed è un onore condividere con i lettori di Teatrionline la sua personale riflessione sul teatro e sul momento storico che stiamo attraversando.
****
Ferruccio Soleri, lei ha portato la Commedia dell’Arte in tutti i teatri del mondo. Nel corso della sua straordinaria carriera itinerante cosa ha catturato con il suo sguardo, di uomo e di attore, che ad oggi rimane indimenticabile?
Mi fa sempre piacere riscontrare il desiderio dello spettatore di conoscere, apprendere, stupirsi e, perché no, divertirsi. Se con il tuo lavoro raggiungi, soddisfi questi desideri, o parte di essi, ecco che sei felice.
Portare il sorriso sulla bocca di migliaia di persone è un dono che implica una grande dote. Per lei si è trattato anche di una missione?
No, nessuna missione ma consapevolezza di dover far bene il proprio mestiere e di ricordarsi sempre che in scena non sei solo, ma hai dei colleghi che devi rispettare.
Cosa porta un uomo a dedicare tutta la sua vita al teatro?
Lei farebbe la stessa domanda a un chirurgo, un avvocato, eccetera? Ho studiato per fare l’attore e questo faccio.
Lei ha regalato tutta la sua abilità interpretativa ad un personaggio iconico di eterna bellezza: Arlecchino. Cosa dello spirito di Arlecchino permane in lei?
Arlecchino è un personaggio che io interpreto in scena, non certo nella vita, che desidero sia ben distinta dal lavoro.
Ha allenato il suo indiscutibile talento acrobatico salendo e scendendo le scale di casa sua, facendo stretching. Ma dove è nata la sua passione per questa particolare abilità espressiva?
La passione delle acrobazie nasce all’età di sette o otto anni, quando scappavo da casa, dopo aver convinto la tata e mia sorella ad accompagnarmi, per spiare da sotto il tendone dei circhi che frequentemente arrivano a Firenze e tutto ciò che vedevo fare volevo, poi, ripeterlo nel giardino di casa con grandi spaventi da parte di mia madre. Pensi che ero arrivato a dire a mio padre, professore di storia e filosofia, che volevo fare il circense. Mi spiegò che quell’attività passava da padre in figlio e quindi.
Ho fatto anche due anni di danza classica e poi ho molto giocato a calcio da semi professionista, prima di andare a Roma, all’Accademia d’Arte Drammatica.
Ci racconta la Firenze della sua infanzia?
A Firenze vivevo in un villino alla periferia. Mi sono diplomato al Liceo Scientifico e spesso mi ritrovavo con gli amici per una partita di calcio o tennis. Poco cinema e poco teatro. Eravamo appena usciti dalla seconda guerra mondiale e non si poteva scialare. Si doveva, con pazienza, ricostruire.
Quali sono stati i Maestri che hanno segnato il suo percorso di crescita artistica?
Due sopra tutti: Orazio Costa e Giorgio Strehler. Aggiungerei anche il mio amico fraterno Beppe Menegatti; fu con lui, infatti, che iniziai a fare teatro presso l’università, (Matematica e Fisica) e poi, insieme, andammo all’Accademia d’Arte Drammatica a Roma, lui per regia ed io per recitazione. Ancora oggi ci lega un’amicizia fraterna indissolubile.
Come ha detto Donato Sartori, la maschera è la scarpa del viso e per lei è stato uno strumento indispensabile sul palcoscenico. Ma, mentre le maschere comportamentali, consuete alle dinamiche sociali, tendono a celare l’autenticità nei rapporti interpersonali, la maschera che lei ha indossato le ha concesso il dono di mettere a nudo alcune caratteristiche degli esseri umani?
Aveva ragione il compianto Donato, amato amico. La maschera ha inciso dei caratteri che ti obbligano a determinati comportamenti che devono essere coerenti con il carattere della maschera, appunto. Il risultato è che la maschera rimanda da subito al personaggio che dovrà completare il carattere con gestualità di tutto il corpo coerenti con essa.
È il complesso della Commedia dell’Arte che aveva ed ha il compito di portare alla ribalta i caratteri della società, sottolineandone i tratti distintivi osservati e perfezionati grazie alla conoscenza delle diverse persone incontrate nell’andare per il mondo.
Viviamo un momento storico di profondi stravolgimenti che deve, sicuramente, portarci a riflettere sul nostro destino. Come desidera immaginare il futuro dell’umanità? E cosa dobbiamo portare, secondo lei, del Novecento trascorso nel nostro bagaglio verso il futuro?
La vita, come il futuro, si può solo in parte modellare. Prevale in me l’immagine di un labirinto nel quale devi cercare di non perderti seguendo i sentimenti più veri, non dimenticandoti mai che l’impatto che il tuo comportamento ha su chi incontri può essere molto influente. Non affidare ai social la frequentazione con gli altri, far sempre prevalere il contatto umano. In fondo il teatro è anche questo, incontrare più persone senza mediazione.
Molti hanno paragonato la pandemia che ci ha colpiti alla guerra. Trova appropriata questa comparazione?
No, nessuna guerra. La guerra è ben altra cosa. Nessuno dovrebbe parlare di privazione della libertà solo perché devi stare un periodo del tuo tempo seduto sul divano, comodamente a guardare la tv, leggere, scrivere, giocare , eccetera.
Il mondo della cultura e dello spettacolo si è mobilitato, anche in questo drammatico momento, per sostenere lo stato d’animo del pubblico, grazie alla trasmissione di meravigliose performance artistiche che hanno attraversato le mura di tutte le case, regalando una calorosa compagnia, stimolando l’immaginazione, attenuando un generale stato di angoscia. Secondo lei la cultura merita di essere difesa e tutelata, insieme a tutti coloro che la mantengono sempre viva?
Flaubert diceva: “Ama l’arte; tra tutte le menzogne è ancora quella che mente meno”, perché l’arte non deve essere la serva della folla.
Donare l’arte attraverso svariati strumenti non è cosa mala, ovviamente, ma non deve diventare un alibi per non incontrarsi, per non confrontarsi vis à vis.
Il contatto, dunque il pubblico, è la parete mancante del palcoscenico.
Difendere la cultura vuol dire difendere il popolo. Senza cultura non esiste neanche un popolo.
Grazie.
Ines Arsì