ll Museo Villa dei Cedri è lieto di annunciare la sua riapertura al pubblico MERCOLEDÌ 3 GIUGNO 2020 con la mostra «Hortus conclusus. L’illusione di un paradiso», ponendosi al centro dell’attualità con un tema alquanto presente e condiviso.
È possibile analizzare le nostre società contemporanee, soprattutto quelle occidentali, alla luce dei temi religiosi e dei miti antichi che le hanno fondate? Questa è la domanda che si pone la mostra «Hortus conclusus. L’illusione di un paradiso», basata sull’allegoria cristiana del giardino recintato e sul mito greco del Ratto di Europa. Se da un lato la Madonna nel suo giardino, circoscritto da un muro o da una recinzione, simboleggia il Paradiso, un luogo protetto e al riparo dalle sofferenze terrene, dall’altro, Europa, figlia del re di Tiro, rapita da Zeus, illustra la diffusione in Occidente delle varie civiltà dell’Asia occidentale, del Vicino e del Medio Oriente.
Queste due immagini simboliche non solo sono sopravvissute nel corso dei secoli, ma offrono altresì una nuova e originale interpretazione delle nostre società contemporanee: brutalmente sradicata, la verginità racchiusa nel suo giardino diviene infatti metafora della nostra estraneazione – simbolica e geografica. Esse permettono di esplorare il rapporto tra l’uomo e il suo territorio, tra identità e cultura.
Una proposta di Marco Costantini, curatore presso il Mudac – Musée de design et d’arts appliqués contemporains, Losanna, per il Museo Villa dei Cedri.
La visita al Museo si svolge nel rispetto delle norme dettate dall’Ufficio federale della sanità pubblica (UFSP) e per preservare la salute di visitatori e personale Dato che il numero di persone in contemporaneo nel Museo è limitato a 10 è stato esteso l’orario di apertura del venerdì:
Mercoledì – giovedì dalle 14 alle 18
Venerdì – domenica e festivi dalle 10 alle 18
Per più ampie informazioni sulle modalità della visita, rinviamo al sito www.villacedri.ch
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PRESENTAZIONE DELLA MOSTRA
Hortus conclusus
È dal Cantico dei Cantici, canto d’amore tra un uomo e una donna, probabilmente uno dei testi più noti dell’Antico Testamento, che emerge l’immagine del giardino cintato. Il testo celebra il rapporto allegorico tra Cristo e la sua Chiesa, la quale è a sua volta associata misticamente alla Vergine Maria e all’anima del singolo individuo. È solo alla fine dell’Alto Medioevo, a partire dalla seconda metà del XII secolo, che l’interpretazione diventa pienamente mariana. L’hortus conclusus è quindi l’identificazione della sposa Maria con il giardino chiuso, una fontana sigillata: «Hortus conclususus soror mea, sponsa; hortus conclususus, fons signatus. / Giardino chiuso tu sei, sorella mia, sposa, giardino chiuso, fontana sigillata» (4.12). Nell’iconografia cristiana, la rappresentazione della Vergine seduta al centro di un giardino di fiori e alberi, circondato da un muro, si sviluppa soprattutto a partire dal XV secolo, come in La Madonna incoronata da due angeli (1518) di Albrecht Dürer, la cui raffigurazione fa riferimento al ruolo redentore di Cristo. Nel XIV e XV secolo, con il diffondersi dell’epidemia di peste, il potere terapeutico dell’orticoltura si radica nella società, arricchendo nel contempo il simbolismo del giardino cintato. La Vergine nel giardino assume allora anche un ruolo salvifico per il mantenimento della salute del corpo e dell’anima. Quest’immagine sarà in particolare all’origine del giardino monastico, dove si coltivano erbe medicinali, verdure, ma anche alberi da frutta. Alcune aree sono invece consacrate alla contemplazione e alla spiritualità. Il giardino medievale, concepito come hortus conclusus, è sì dunque un luogo per la produzione di rimedi contro i malanni fisici, ma anche uno spazio favorevole alla meditazione, lontano dai tormenti temporali.
Con «Hortus conclusus. L’illusione di un paradiso», Villa dei Cedri è quindi sia una dimora ottocentesca immersa in un parco storico che preserva l’intimità dei suoi avventori e li invita a contemplare la natura, sia un Museo che crea ponti tra la società contemporanea e i visitatori. Come nel giardino monastico, il pubblico è invitato a riflettere, non solo sulla natura, ma anche sull’essenza dell’uomo.
La fotografia di La Vierge à l’Enfant (Hafsia Herzi & Loric) (2009), degli artisti francesi Pierre e Gilles, può essere considerata l’interpretazione contemporanea dell’hortus conclusus. L’opera ritrae l’attrice francese Hafsia Herzi, di origine paterna tunisina e algerina da parte della madre, seduta su una transenna con un bambino in braccio. Intorno a lei sono collocati coni spartitraffico, lanterne da cantiere e un triangolo di segnalazione che delimitano uno spazio di sicurezza su un terreno disseminato di detriti meccanici. Pierre e Gilles attribuiscono qui il ruolo protagonista della Vergine a una donna rappresentativa nella storia dell’immigrazione in Francia. Essa incarna dunque un tentativo di riconciliazione, una Vergine per tutti, con radici musulmane ma integrata in terra cristiana. In questa immagine, tuttavia, l’hortus conclusus non è così idilliaco come rappresentato nel XV secolo, ma corrisponde anzitutto alle sfide delle nostre società occidentali contemporanee.
Jean Bedez, con la sua opera Sans titre (2018), dà invece una lettura contemporanea alla figura di Zeus trasformatosi in toro bianco nel mito del Ratto di Europa. L’opera risponde a quasi tutti i codici della scultura classica, ma l’equilibrio del toro destabilizza: il piedistallo che àncora l’animale sembra nel contempo proiettarlo alla conquista, così come alla resa dopo la lotta. La questione posta dal mito di Europa oggi è al centro del dibattito sull’immigrazione e sulla fluidità delle frontiere: o considerare l’uomo e il suo ambiente al pari di un dato organico in perenne movimento e di conseguenza l’immigrazione come un fenomeno di divulgazione e scambio di conoscenze – un equilibrio instabile ma sempre vincente –, oppure segregare ogni civiltà all’interno dei propri confini come un vaso chiuso, minacciandola di estinzione e il cui destino è quindi il collasso.
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I muri di ieri e di oggi
Già storicamente, sia la Grande Muraglia cinese, eretta per proteggere l’Impero dalle invasioni dal Nord, sia il Vallo di Adriano che preserva il confine settentrionale della provincia romana della Bretagna dai barbari, testimoniano di come l’uomo non abbia mai smesso di costruire mura ai confini dei suoi territori. Servono veramente come luogo di protezione contro un nemico proveniente da un altro luogo, come luogo di reclusione o di ritiro? Oggi, forse più che mai, la questione delle frontiere solleva discussioni ricorrenti.
È un muro molto reale quello al quale Adrien Missika si riferisce con la videoinstallazione As the Coyote Flies (2014). Il titolo dell’opera allude ironicamente sia alla migrazione annuale della farfalla monarca dal Canada al Messico, sia al canide diffuso in Nord America. Il coyote è un simbolo iconico del folklore dei nativi americani nel Sud-Ovest degli Stati Uniti. È sia una figura che usa l’inganno e l’umorismo per ribellarsi alle convenzioni sociali, sia un simbolo del potere militare. Oggi il termine coyote viene usato anche per indicare i contrabbandieri. Il coyote di Missika, nel suo filmato, prende la forma di un drone, una tecnologia di origine militare, che si muove zigzagando da un lato all’altro del confine tra Ciudad Juárez e Tijuana, schernendosi di un confine arbitrario creato dall’uomo.
Con Limit of Control (2017) dell’artista Annaïk Lou Pitteloud, si crea un’opportunità simbolica per mettere in discussione la questione del limite e la decisione di attraversare o meno il confine. La sua opera si configura come una linea di gesso che attraversa una parte del parco ed è caratterizzata da due lati distinti: il primo è preciso e tagliente, mentre l’altro è sfocato. Qui, oltrepassare la linea, calpestarla, cancellarla, presuppone la scelta di scavalcare un segno convenzionale di limitazione spaziale e quindi di affermarsi come essere che decreta la propria libertà.
D’altro canto, l’installazione Who Fears The Other (2017) dell’artista losannese Sandrine Pelletier, ci rimanda a un muro psicologico delle nostre società contemporanee: il terrore. L’opera si riferisce alla poesia scritta dalla Società Biblica d’Egitto dopo l’esecuzione dei 21 cristiani copti eseguita da parte di Daesh in Libia, nel febbraio 2015. Il titolo può essere letto su specchi la cui superficie è stata trattata con acido. I supporti così degradati evocano reliquie e sgomento.
Con «Hortus conclusus. L’illusione di un paradiso», il Museo estende la riflessione della mostra al di fuori delle pareti, integrando il suo parco, anch’esso peraltro recintato, e presenta opere in dialogo con quelle esposte nelle sale, a tratti invertendo la logica del dentro e del fuori.
Così, se con Le Jardinier aux fleurs gisantes (2020) di François Malingrëy, una scultura di circa cinque metri posta all’ingresso sud del parco, viene rievocato un sentimento intimo di inquietante melanconia, Nymphées (2019) di Eva Jospin, allestita nella veranda interna della Villa, riproduce i capricci architettonici, o folie, le tipiche costruzioni a vocazione ornamentale allestite normalmente in parchi e giardini a partire dal Rinascimento.
È su questa ambivalenza che anche l’artista belga Conrad Willems gioca: con Costruzione IV (2017) ambienta la sua architettura nelle sale del Museo, mentre i tre blocchi di marmo rosso – un grande arco, un cubo e un prisma – intitolati I.XI.XIV (2020) sembrano attendere un immaginario cantiere nel sedime erboso antistante la Villa.
La mostra presenta per la prima volta in Svizzera un gruppo di artisti contemporanei di grande rilievo e diverse opere create appositamente per l’occasione, che sono messe in dialogo con stampe antiche del XV, XVI e XVII secolo di Albrecht Dürer, Heinrich Aldegrever, Martin Schongauer, Hendrick Goltzius e Remoldus Eynhoudts.
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Estratto da Marco Costantini, «Hortus conclusus. L’illusione di un paradiso», nel catalogo della mostra:
Se l’arte occidentale ha rapidamente assimilato e propagato l’iconografia del giardino chiuso fin dal Medioevo, gli artisti contemporanei affrontano l’idea del territorio e della frontiera con altrettanto impegno e convinzione. Ciononostante, la questione del muro-frontiera, del limite, non è più l’eco dell’immagine di ritiro contemplativo e di verginità proprie dell’hortus conclusus. La metafora terapeutica del giardino ha subito un’alterazione. Oggi sembra restare soltanto una volontà di isolamento egoista, troppo spesso motivato dagli imperativi economici e politici. Spiegando lucidamente il fallimento del progetto di coabitazione pacifica dell’Europa, Régis Debray ha espresso questa formula senza appello: “La crisi migratoria ha squarciato la carta del regalo di Natale. Ormai ciascuno pensa soltanto a sé, senza vergogna”.
Gli artisti
Tonatiuh Ambrosetti, Jean-Marie Appriou, Mirko Baselgia, Jean Bedez, Hicham Berrada, Laura Henno, Alain Huck, Eva Jospin, Mathias Kiss, Emma Lucy Linford, François Malingrëy, Omar Mismar, Adrien Missika, Sandrine Pelletier, Pierre et Gilles, Annaïk Lou Pitteloud, Recycle Group, Mustafa Sabbagh, Conrad Willems.
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Museo Villa dei Cedri
Piazza S. Biagio 9 | CH-6500 Bellinzona
Tel.: +41 (0)58 203 17 30
E – Mail: museo@villacedri.ch | Web: www.villacedri.ch
Ingresso: CHF 10 / € 9; ridotto: CHF 7 / € 6
Orario d’apertura: mercoledì – giovedì: 14-18 | venerdì – domenica e festivi: 10-18 | lunedì e martedì chiuso